
Casimiro De Colle (Miro) (1918-1991)
Poesie - Parte terza
1. La bora
2. La murosa
4. La magna
5. I cjalciumiz
7. La femina e l’om ta l’ostaria
8. La domanda
9. La liscia
10. Il stali
11. La mignestra
12. Miuta
13. Rosuta e il Put
14. Il Rosean
15. La primavera
17. Il vin brulè
18. Il čjecul
19. Il mortanolo
20. L'impresari
21. I doi cognons (chel da femina e chel da l’om)
23. L’om
24. Il vecjut
26. Il pasât

La bora
Prin
al ven
il borin,
il fî
al è plui civîl,
plui frutin.
Al va a scuola
e, al massim, al ti alcia
la cjavelada.
Ma la Bora,
so mari,
scuelada è fuartata,
à fat
…l’universitât…
tant che nencja
il plui grant
scienziât
a no’l sa diti
là che à imparât.
A ti poca,
a ti strassina
e, encja
a ti ruvina.
A ti puarta via
l’ombrena
o la bareta.
As feminas
ai i alcia las cotulas,
fasint viodi
las culetas.
Si no tu ti tens
a ti buta
ta cuneta.
E no l’è finît:
se davûr
al ven encja il pâri:
il Boron!
Chel, al à
incjmo un plui grant
podê.
Là ch’al passa
dut al fracassa.
Se pò tu sês
par strada,
magari cun una femina
a bracet,
al ti scaraventa
tar una androna
sora un scovazzâr,
un sora chel ati,
como iessi
tal iet.
La bora
Dapprima
vien
il borino,
il figlio
più ammodo
più bambino.
Va a scuola
E, tutt’al più, ti scuote
i capelli.
Ma la Bora,
sua madre,
così colta è forte
ha seguito
… corsi universitari….
tant’è che nemmeno
il più accorto
scienziato
può dirti
dove ha così bene appreso.
Ti spinge,
ti trascina
e può anche
rovinarti.
Ti ruba
L’ombrello
o il berretto.
Alle donne
solleva le gonne
mostrando
il posteriore.
Se non ti aggrappi
ti getta
nella cunetta.
E non è finita:
se poi
arriva anche il padre:
il Borone!
Quello ha
un potere ancora
più grande.
Dove passa
Rompe tutto.
Se poi sei
anche strada,
magari insieme ad una donna
a braccetto,
ti scaraventa
in un androne
sopra un immondezzaio
uno sopra l’altra
come essere
a letto.
La murosa
Bruta mula...
Ce biela che tu sês!
Ti volares
duta par me.
Par illuminami
la strada.
Cencia di te
è simpri scura.
Liberant
duta la fuarcia
par strengiti
tal gno brac’
cun tanta
tenerecia,
tanta pascion,
cun tant afiet.
La morosa
Brutta “mula... *”
Come sei bella!
Ti vorrei
tutta per me.
Per illuminarmi
la strada.
Senza te
è sempre scura.
Liberando
tutta la forza
per stringerti
fra le mie braccia
con tanta
tenerezza,
tanta passione,
con tanto affetto.
* mula: ragazza
Una biela zornada
Dut rideva
in chel dì!
la ch’a mi portava
Dulà?
Bastava lâ,
lâ, là che nissun
mi conosceva.
L’ombrena di un pin
spierdût tal miec’
dai baraz
a nu à fat larc
da podê sentâ.
Intòr, dut rideva:
il batafier
di una faria pôc lontana
mi dava il timp das bussadas.
Cjalant un tic plui in là,
oltra il cancel dal simiteri,
encja chel,
cun dutas las crôs,
al pareva
plui biel.
Una zornada
ch’a mi pareva no ves fin.
Cencia inecuargisi
il soreli al veva
biel tramontât...
Una bella giornata
Tutto rideva
quel giorno!
Dove mi portava
dove?
Bastava andare
là, dove nessuno
mi conosceva.
L’ombra di un pino
sperduto in mezzo
ai rovi
ci ha permesso
di sedere.
Intorno, tutto rideva:
il maglio
di una fucina poco lontana
mi dava il ritmo dei baci.
Guardando un po’ più in là,
oltre il cancello del cimitero,
anche quello,
con tutte le croci,
sembrava
più bello.
Una giornata,
che mi sembrava non avesse mai fine.
Senza accorgesene
il sole era
già tramontato....
La magna
Un grant
madrac
giâl e ricamât.
A no’l beca.
Nò l’è velenôs,
ma prima
di copalu
bisugna prometi alc,
sinò a sucêt una disgracia
par chel ch’a lu copa.
Pensant sora
Nart di Mieli,
ch’al veva una in
vista,
al pensa di copala,
prometint
che doi siorons
di fradis,
marcjedanz di legnam.
E, s’a no veva
avonda,
a podeva toli
encja il plui
vecjo.
Il Pari.
La magna *
Un grande
serpente
giallo e ricamato
non morde
non è velenoso
ma prima
di ucciderlo
bisogna prometterle qualcosa,
altrimenti incombe disgrazia
su quello che lo uccide.
Ripensandoci
Nart di Mieli
che ne aveva
incontrata una
pensa di ucciderla,
promettendo
quei due ricchi
di fratelli,
mercanti di legname.
E se proprio non ne aveva
a sufficienza
poteva prendersi
anche il più
vecchio.
Il Padre
* serpente appartenente alla famiglia dei colubridi, chiamato anche Colubro d’Esculapio, in Veneto Carbonasso, in Lombardia Saettone, in Toscana Frustone. E’ privo di denti perforati e specializzati all’inoculazione di veleno
I cjalciumiz
Doi fascisz
a cirin l’avocat
“da Sessa”,
il ros - cun doi esses -,
muart in campo di concentrament,
par dai il vueli
di riz.
Sintint a bati
sul porton
una vecjuta
a va a viergi.
Viodint doi oms
vistîz in neri
cun t’un scovul
tacât ta bareta,
la vecjuta,
domandant scusa,
a rispuint
ch’a a no i an clamât
i cjalciumiz.
Gli spazzacamini
Due fascisti
cercano l’avvocato
“da Sessa”,
il rosso - con due esse -,
morto in campo di concentramento,
per dargli l’olio
di ricino.
Sentendo battere
sul portone
una vecchietta
apre.
Vedendo due uomini
vestiti in nero
con il fiocco
attaccato al berretto,
la vecchietta,
chiedendo scusa,
risponde
che non ha chiamato
gli spazzacamini.
Baldin e Baldon
Baldon,
sindic dal paîs.
Baldin
il so
galupin.
Baldon:
”Và, fai un gîr
tal paîs,
Baldin,
sint ce ca dîs
la int.”
Baldin tornat:
”La int a murmura,
a brundula
che a à fan!”
Baldon:
“Cîr subit
il Muini,
cj’al suni
immediatamenti
...miesdì.”
Baldin e Baldon *
Baldon,
sindaco del paese.
Baldin
il suo
galoppino.
Baldon:
“Vai a fare un giro
in paese,
Baldin,
senti cosa dice
la gente.”
Baldin di ritorno:
“La gente mormora,
brontola
che ha fame!”
Baldon:
“Cerca subito
il sacrestano,
che suoni
immediatamente
...il mezzodì.”
* Baldin e Baldon: soprannomi
La femina e l’om ta l’ostaria
Tu sês un
strassagjorni.
Un cjocheton,
una figura porca.
E dopo?
Un lazaron,
un fanfaron,
voja di fâ nuja.
Un barbòtar.
E dopo?
Parce astu
pajât encja
par lui?
Ma?
E’ cussì.
Tu sês
taront,
dordel,
quadri,
maciûl,
sturnel.
E dopo?
Parcè ao
di voleti
bon?
Moglie e marito in osteria
Sei uno
sciupagiorni.
Un ubriacone,
un porco figuro.
E dopo?
Un lazzarone,
un fanfarone,
battifiacca.
Un borbottone.
E dopo?
Perché hai
pagato anche
a lui?
Ma?
E’ così.
Sei
tonto,
sciocco,
una testa quadra,
scimunito,
ingenuo.
E dopo?
Perché
devo volerti
bene?
La domanda
La domanda.
La proposta.
La dichiarazion
d’amôr,
secont
tradizion.
I ten
una vacja,
doi vigjei,
vot gjalinas,
una piora,
cun doi agnei.
E una ata
biela roba
chi no ti vuei dî,
ma si tu mi sposas
i te la fâs sintî.
La domanda
La domanda.
La proposta.
La dichiarazione
d’amore,
come
tradizione.
Possiedo
una mucca,
due vitelli,
otto galline,
una pecora,
con due agnelli.
Ed un’altra
bella cosa
che non ti voglio dire,
ma se mi sposi
te la faccio sentire.
La liscia
La plui granda a partiva
tal glereâl in Agolet,
a vigneva fin da pît dal bosc,
a puart di strada,
da Caris.
Naturalmentri plui di
cinquanta ains fa.
Robas da restâ
incjantâz.
Molâ una taja di quatri metros
par sesanta, encja otanta
centimetros di diametro
lassù a mil e doi
e forsi plui, di altecia,
e vignî besola
a sietcent,
dopo un percors
di trê chilometros.
L’era stât un lavoron,
ma il legnam,
ben pôc l’era stât ruvinât.
Doi troncs sot
e doi plui gros,
un par banda,
par spuinda.
Il lengac’ dai menaus
no l’era par duc’:
“Meni, paissa un tic che taja,
strozila cà,
planta i pâi,
par tignila su.
Di là met
una cjavîla,
una surîs in sbighêz;
sot, un strassedôr.
Spieta chi ti iudi,
bisugna jocâ.
In schena, met
una furfisîla.”
E s’al era un
ch’al imparava
ai i diseva margioc.
Man man che la liscia
a lava indevant,
man, man
ai molava jù
l’ocorint in tajas.
Quant ch’a era finida,
vigniva il biel.
Simpri cul lôr lengac’:
“Cjama!
Bigna!
Mola las balarinas!”
Al era dut
un saltà, par dut.
“Ferma! Bisugna bagnâ.”
Fin che da
Caris
sul cjar si podeva
cjamâ.
Lo scivolo
Il più grande partiva
nel ghiaione in Agolet
ed arrivava fino alla fine del bosco,
vicino la strada,
in Caris.
Naturalmente più di
cinquanta anni fa.
C’era da rimanerre
stupiti.
Lasciar scivolare un tronco di quattro metri
per sessanta, o anche ottanta,
centimetri di diametro
lassù a mille duecento
o forse più,
e scendere
a settecento,
dopo un percorso
di tre chilometri.
Era stato un grande lavoro,
ma il legname,
era stato rovinato ben poco.
Due tronchi sotto
e due più grossi,
ai lati,
di sponda.
Il gergo dei boscaioli
Non era di tutti:
“Meni, solleva [1] un po’ quel tronco,
tiralo di qua,
pianta i paletti,
per tenerlo su.
Di là metti
una cavicchia [2]
un paletto in diagonale;
di sotto, un strassedôr.
Aspetta ti aiuto,
è necessario "jocâ" [3].
Di dietro, metti
una furfisîla”.
E se c’erà
un apprendista
lo chiamavano stupidino.
Mano a mano che lo scivolo
andava avanti,
così rifornivano
all’occorrezza
i tronchi.
Quando tutto era finito,
veniva il bello.
Sempre nel loro gergo
“Carica!
Manda giù i tronchi!
Lasciali andare!”
Era tutto
un saltare.
“Ferma! Bisogna bagnare”.
Fino a che da
Caris
sul carro potevano
essere caricati
[1] "Paissa" significa sollevare il tronco facendo leva mediante il "sapin", strumento a forma di uncino con parte terminale ricurva. Innestato su un lungo manico di legno è utilizzato per trascinare, sollevare o far rotolare i tronchi una volta arpionati (vedi anche filmato)
[2] Cavicchio/a: piccolo legnetto a guisa di chiodo da conficcare nel legno
[3] Jocâ: significa comunicare con la voce il preciso momento di inizio allo sforzo coordinato dei boscaioli intenti al trascinamento del tronco. Nel filmato si può ben ascoltare questo jocâ. Da considerare che solo il boscaiolo più anziano o più esperto poteva espletare questo "importante" compito.
Le parole evidenziate sono ancora oggetto
di ricerca per una corretta traduzione
Il stali
Tita di Pacu
tal lûc “da Stali”
al voleva fâ
il stâli.
Al veva preparât
un biel pôš
di claps,
tirâts su
par riùs e cunetas,
riguèt,
puartanlu tal gei,
un grum
di savalòn,
metûts in tasa
un bon pôš
di lens ben scuadrâts:
ogni dì al era tal lûc
a fâ alc.
E ogni dì al pasava
Norlin,
lant tal paîs
e a-i diseva,
plen di morbin:
“Tita, a-no ti làšin!”
Tita si rabeava
sintint simpri
“a-no ti làšin”:
“Cemût, osteât,
a-no mi làšin!
I claps a-son,
il savalòn encja,
trâfs e lens a-son miei,
il lûc al è gno:
cui no mi làšiel?”
“A-no ti làšin”,
a-i ripeteva
Norlin.
Tita, disocupât,
la famea cun fruts
da mantegni,
e tanta, tanta
miseria,
a-no lu àn mai
lasât.
Dopo la guera,
par vivi
‘l à scuignût vendi
claps, lens
e encja il lûc
“da Stâli”.
Lo stavolo
Tita di Pacu
in località “da Stali”
voleva costruirsi
uno stavolo.
Aveva preparato
un bel po’
di sassi,
caricati
da ruscelli e fossi,
raccolto,
portandolo con la gerla,
un mucchio
di sabbia,
accatastato
una quantità
di legni ben squadrati:
ogni giorno era lì
a far qualcosa.
E ogni giorno passava
Norlin,
recandosi al paese
e gli diceva
con brio:
“Tita, non ti danno il permesso!”
Tita si arrabbiava
sentendo sempre
“non ti danno il permesso”:
“Come, sacramentato,
non mi danno il permesso!
Ci sono i sassi,
la sabbia anche,
le travi e i legni sono miei,
il terreno è mio:
chi non mi dà il permesso?”
“Non ti danno il permesso”,
gli ripeteva
Norlin.
Tita, disoccupato,
una famiglia con bambini
da mantenere
e tanta, tanta
miseria,
non gli hanno mai
dato il permesso.
Dopo la guerra,
per vivere
ha dovuto vendere
sassi, legni
e anche il terreno
“da Stali”
La mignestra
Il Flegâr
e Tita di Lena
a ciarî lavôr!
Ai veva duc’ i doi
pitost la schena dreta,
a no’ lu viodeva
di bon vôli.
Il prin al à tai pîs
un pâr di colombins
cun-t-una suela
di trê centimetros di fràsin,
par no sbrisâ
brucjas e glacìns:
ma as era las unicas
scarpas ch’al veva.
A Tita di Lena,
mâgri
tant che un cjan da cjacia
a-i mancjava dispès
la bocjada.
Cuant ch’al podeva
vendi un gei
o una lôgja,
al comprava, ogni tant,
un eto di mortadela.
Jù pal Gail,
in Austria,
dai contadins
i-u métin cu la sapa
tal cjamp.
A miesdì la merinda
pluitost scjarsuta,
la sera a taula
un plat di mignestra
pluitost lungjuta:
nisun dai doi mangjava.
Il paròn,
ch’al spiculava,
a-ur dîs:
“Mangjait!”
Il Flegâr
subìt al rispuint:
”A scota!”
Il paròn:
“Soflàit, ch’a si sfreida!”
Tal domàn,
jevâts a buinora,
partìšin cencia dî nuja
a cerî un âti paron
che cuant
che la mignestra a scota
al ti dîs:
“Met denti pan!”
“No-l era lavôr
par nô!
Un lavoràt
masa pesant,
nomo Tita?”
“E la mignestra
masa lisera!”
La minestra
Il Flegar
e Tita di Lena
in cerca di lavoro!
Entrambi avevano
la schiena piuttosto diritta
e non lo vedevano
di buon occhio.
Il primo calzava
un paio di zoccoli
con una suola
di tre centimetri di frassino,
per non scivolare
chiodi e ramponi:
ma erano le uniche
scarpe che possedeva.
Tita di Lena,
magro
come una cane da caccia,
saltava sovente
pranzo e cena.
Quando riusciva
a vendere una gerla
o una slitta,
acquistava, ogni tanto,
un etto di mortadella.
Giù per la valle del Gail,
in Austria,
presso certi contadini
li mettono a zappare
nel campo.
A mezzogiorno il cibo
era piuttosto scarso,
la sera in tavola
un piatto di minestra
piuttosto brodosa:
nessuno dei due mangiava.
Il padrone,
che li osservava,
li esorta:
”Mangiate!”
Il Flegar
prontamente risponde:
“Scotta!”
Il padrone:
“Soffiate, che si raffredda!”
All’indomani,
alzatisi all’alba,
se ne partono senza dir niente
a cercare un altro padrone
che quando
la minestra scotta
dica:
”Mettetici dentro pane!”
“Non era lavoro
per noi!
Un lavoraccio
troppo pesante
vero Tita?”
“E la minestra
troppo leggera!”
Miuta
“Ce as-tu,
Miuta?”
“Eh, sì, ce as-tu!”
« Al è cuatri, cinc mêš
ch’i-soi maridada
e incjmò no vin nuja:
Dantòn nol lavora,
la miseria
si ingruma dì par dì”.
La cjasa a-era su la strada
dal paîs;
chei giovenats,
duc’ cencia lavôr,
a-i entrava
a fâ la cjacarada
e la ridada.
“Mi pâr, Miuta,
che tu vens
tarondela”.
“Al è stât Dantòn,
un om bausâr!”
“No pòs jesi,
Miuta!”
“Ce ti a-el fat?”
“A mi à dât ta man
una rôba,
rosa, rosa,
murela, murela,
como il mani da masanghela.
Jo, cencia savê
j’ai fat
ce ch’al-mi à det!
Cumò, dopo dut
a-mi àn det
ch’al našarà
encja un frut”.
“Ma nomo, nomo,
Miuta,
podiel jesi?”
“I-soi sigura:
al-è stât nomo
Dantòn
a fâmi vegni
chest pansòn!”
Miuta
“Che cos’hai,
Miuta?”
“Eh, si, che cosa c’è!”
“Sono quattro, cinque mesi
che sono sposata
e non abbiamo ancora niente:
Dantòn non lavora,
la miseria
si accumula di giorno in giorno”.
La casa dava sulla strada
del paese;
quei giovinastri,
tutti disoccupati,
entravano
a scambiare due chiacchere
e a riderci su.
“Mi sembra, Miuta,
che diventi
rotondetta”.
“E’ stato Dantòn,
quel bugiardo!”
“Non può essere,
Miuta!”
“Cosa ti ha fatto?”
“Mi ha messo in mano
una cosa,
rossa, rossa,
dritta, dritta,
come il manico dell’accetta.
Io, senza sapere
ho fatto
quello che mi ha detto!
Adesso, dopo tutto
mi hanno detto
che nascerà
anche un bambino.”
“Ma no, no,
Miuta,
può essere?”
“Sono sicura:
è stato solo
Dantòn
a farmi venire
questo pancione!”
Rosuta e il Put
Min dal Put
tornant da l’America
tant che un siorut:
un biel omenut,
dôs moschetutas
voltadas in sù,
doi vôi ridints,
cèas nêras in fûr,
voltadas in jù;
simpri cun-t-una
biela mundura,
scarpas di vernîs,
cjapiel nêri
ala largja a la Mericana
cuant ch’a ploveva
a-i serviva da ombrena.
Tornant
al veva fat la pâs
cun Rošuta, la sô femina,
sul so tai,
pičuluta,
una biela musuta,
ma la lenga, però, pitost lungjuta.
Si i-u viodeva
simpri a bracét
e simpri dut,
dut un murosét.
La int a-diševa:
“Simpri cusì
no su pos lâ,
bisogna encja
lavorâ”.
Una dì
si viôt Min cu la bareta
(cencja cjapiel
‘l era mancul biel)
ta l’ostaria
cun mieč litro di vin
par compagnia.
Fra un mieč
e una šgnapa
al comenča a cjantâ:
“Fin che avevo
Dollari!
Dollari!
Dollari!
Baci e carezze
e sempre vicin.
Adesso che non ho più
Dollari!
Dollari!
Dollari!
muse e e muscicchi
e senza un po’
di morbin”.
Rosuta e il Put
Min dal Put
tornando dall’America
come un signore:
un bel ometto,
due baffetti
arricciolati all’insù
due occhi ridenti,
ciglia nere sporgenti
piegate all’ingiù;
sempre
ben vestito,
scarpe di vernice,
cappello nero
tesa larga all’americana
quando pioveva
gli serviva da ombrello.
Tornando
Si era riappacificato
con Rosuta, sua moglie,
simile a lui,
piccoletta,
un bel visetto,
ma la lingua, però, piuttosto lunga.
Li si vedeva
sempre a braccetto
e sempre tutto,
tutto un tubare.
La gente criticava:
”Sempre così
non vi può andare,
bisogna anche
lavorare”.
Un giorno
si vede Min con il berretto
(senza cappello
era meno bello)
all’osteria
con mezzo litro di vino
per compagnia.
Fra un mezzo
e una grappa
comincia a cantare:
“Fin che avevo
Dollari!
Dollari!
Dollari!
Baci e carezze
e sempre vicin.
Adesso che non ho più
Dollari!
Dollari!
Dollari!
bronci e musi lunghi
senza un po’
di allegria.
Il Rosean
Cotulina,
cotulina biela,
al è rivât
il Rosean:
al vent
fîl e batons,
vigrerûi,
gušelas,
spâli e aštic,
curdela,
frustagn,
vilût e setèn
par casadalz e camùfs.
Cotulina,
cotulina biela.
Fin qui pubblicata in Almanacco culturale della Carnia. Segue una parte inedita:
Dugo,
ch’al era tal necesari,
al capiva
“Dusulina,
Dusulina Biela!”
La sô femina!
Cuâši al buta jù
la puarta
e cui vôi spiritâts
al salta fûr:
“Cui clami e’ la mê femina?”
Al traviersa il coridôr,
su l’àndit
al ti viôt
il Rosean
ch’al veva pojât
la crašina.
“Fûr di cà, torzeòn,
j’ ti dòi jò
“Dusulina,
Dusulina biela”!”
Il Resiano
Gonnellina,
gonnellina bella,
è arrivato
il Resiano *:
vende
filo e bottoni,
ditali,
aghi,
spago ed elastico,
nastro,
fustagno,
velluto e mezzaseta
per corpetti e falpalà.
Gonnellina,
gonnellina bella.
Fin qui pubblicata in Almanacco culturale della Carnia. Segue una parte inedita:
Il Dugo *
che era in gabinetto
sembrava di sentire
“Dosulina,
Dosulina bella!”
Sua moglie!
Quasi butta giù
la porta
e con occhi da invasato
ne vien fuori:
“Chi chiama mia moglie?”
Attraversa il corridoio,
all'entrata
vede
il Resiano
che aveva appoggiato
la crassigna*
“Via di qua, vagabondo,
ti dò io
“Dosulina,
Dosulina bella”!”
* Resiano: della Val di Resia
* Dugo: soprannome, ma come attributo ha significato di ingenuo, tonto.
* crassigna: bauletto in legno adibito al trasporto della mercanzia e tipico dei “cramârs” (mercanti soprattutto di tele e di spezie, attivi per tutta l’epoca moderna e fino ai primi decenni del Novecento)
La primavera
Cuant ch’a era
la primavera
dut si moveva.
Duc’ i lavôrs
erin da scomenciâ.
Par sant Josèf
i orts a-erin
biel fats e samenâts:
ma ‘l era
da ramondâ,
puartâ ledàn, sforcjâ.
Pai oms
cerî un lavôr
che mai al-era.
Ai fruts
si diševa
che il dì di sant Josef
ai si maridàvan i uceluts:
in chel dì
fûr duc’ i fruts pai prâts
a spiâ i uceluts;
encja lôr a-i sintiva
il cliput da primavera,
si corevin devûr cubiâts
fašint pa l’aria
mil voltolets,
par dopo metiši al lavôr
encja lôr
a fâsi il niù.
Il pataros e il frangel
la paruša e’l scodaròs;
il parušàt
cun-t-un pet giâl
como un gjenerâl
plen di madajas,
la dordina
vistuda da nûf
como una balarina:
a-i cjantava
la lôr melodia
in onôr da primavera
ch’a veva tornât a dâ a duc’
l’alegria.
La primavera
Quando arrivava
la primavera
tutto era in moto.
Si ricominciavano
tutti i lavori.
Per San Giuseppe
gli orti erano
già fatti e seminati:
ma bisognava
rimondare,
concimare con il letame, ribaltare il terreno.
Per gli uomini
cercare un lavoro
che non c’era mai.
Ai bambini
raccontavano
che il giorno di San Giuseppe
si sposavano gli uccellini:
in quel giorno
tutti i bambini nei prati
a osservare gli uccellini;
anche loro sentivano
il tepore della primavera,
si rincorrevano a coppie
facendo nell’aria
mille giravolte,
per dopo mettersi al lavoro
anche loro
a costruirsi il nido.
Il pettirosso e il fringuello
la cinciallegra e il codirosso;
il cinciallegra maschio
con un petto giallo
come un generale
pieno di medaglie,
la tortorella
vestita a nuovo
come una ballerina:
cantavano tutti
la loro melodia
in onore della primavera
che aveva regalato a tutti
l’allegria.
Il paîs e tanc’ fruts
Žuviel ‘l è simpri
il plui biel:
la taviela duta in ricés;
tai fruts
era la vita
e tanc’, tanc’ a’nd’era.
Corsas fin jù
in Roncjalins
a mangjâ
boncuc e jerba-da-lat,
in primavera
o lâ par imparâ
là che l’ucelut
al veva il nît
par viodi a creši
i piciui.
D’estât
par duc’ i boscs
e las monts,
simpri in scarpets
cencia pôra dai crets.
D’atom vigniva
il plui biel
lant a meluts jù par Frata
o a pêrs via par Stalivieri,
là che il soreli
al s’inclapa
un tic di plui
ogni volta ch’al pasa
la sera,
par poisâ
dopo una zornada di lavôr,
tignint in gjancja i fruts
fin che lui no s’in lava.
Dopo a cjasa
a-i rivava tart,
cusì encja
quatri scapelòts
ai cjapava,
sêti po’
da mâri o dal pâri,
no impuarta.
Il paese e tanti bambini
Zovello è sempre
il più bello:
la taviela tutta a solatio;
nei bambini
c’era la vita
e ce n’era tanti, tanti.
Corse fin laggiù
in Roncjalins
a mangiare
acetosella e barba-di-becco,
in primavera
o andare a scoprire
dove l’uccellino
aveva fatto il nido
per veder crescere
i piccoli.
D’estate
per tutti i boschi
e le montagne,
sempre con le pantofole
senza paura dei dirupi.
L’autunno
era la miglior stagione
andando a mele giù in Frata
o a pere dalle parti di Stalivieri,
dove il sole
si attardava
un po’ di più
ogni volta che passa
di sera
per riposare
dopo una giornata di lavoro,
trattenendo in chiacchere i bambini
fino a che non se ne andava.
Poi a casa
arrivavano tardi,
così si prendevano
anche
quattro scapellotti
da madre o padre,
non importa.
Il vin brulè
Ce vignevino a fâ
trê viàz par setemana
dôs patugljas
di carbinîrs?
Partint
da Palucia
e da Comeglians
si scuintravint
a Žuviel,
circa siet chilometros
par banda.
Pensais’o l’invier,
cuant c’a nevia,
ch’al è frêt:
lâ in sù,
sù pa mont,
duc’ bagnâtz
e miez glaciâts,
fin tar chel paîs,
dula ch’a si sintiva
nomo la ciuvita.
Viers miegianot
sot i balcons
di un albergut,
a’i clàmant
cualchidun a veirgi
par fâši fâ
alc d cjalt.
Al jeva Crodia,
paròn Jacum.
Al vierc domandant:
“Ce deisderais’o,
fantats ? »
« Sin duc’ bagnâts,
vin frêt :
ch’a nus faši
un brulè ».
Crodia
al impia il fûc,
al fâs miec’ gîr
pa cusina,
tornànt a domandâ:
“Fantats, ce su fas-io?”
”Un brulè”.
Metìnt incjmo legnas sul fûc
al pensava al bruè:
“Alc di brusât?
J’ài capît, fantats,
un cafè cul cognac”.
Par cjargnel
al vin brulè si dîš
“bulida”!
Il vin brulè
Che motivo avevano
di venire tre volte la settimana
due pattuglie
di carabinieri?
Partendo
da Paluzza
e da Comeglians
si incontravano
a Zovello,
circa a sette chilometri
da una parte e dall’altra.
Pensate d’inverno,
quando nevica,
che fa freddo:
salire,
sulla montagna,
bagnati fradici
ed infreddoliti,
fino a quei paesi,
dove si sentiva
solo il canto della civetta.
Verso mezzanotte
sotto le finestre
di un piccolo albergo,
chiamano
qualcuno ad aprire
per bere
qualcosa di caldo.
Si alza Crodia,
padron Jacum*.
Apre chiedendo:
“Cosa desiderate,
giovanotti?”
“Siamo bagnati fradici,
abbiamo freddo:
ci faccia
un vin brulè”.
Crodia
accende il fuoco,
fa mezzo giro
per la cucina,
e richiede:
“Giovanotti, cosa vi faccio?”
“Un vin brulè”.
Mettendo ancora legna sul fuoco
pensava al brulè:
“Qualcosa di bruciato?
Ho capito, giovanotti
un cafè corretto cognac”.
Tradotto in carnico
vin brulè
si dice “bulida!”
* Crodia: Della Pietra Giacomo detto Crodia
Il čjecul
Aj pasava par un troi
sot il paîs
un frut
di devant,
so mâri
devûr.
Una femina, tal prât,
aj domanda:
“La vas-tu po, frut?”
“Aaaa Vignesule”
“A ce fâ po?”
”Aaaa imparâ il sssaltadôrr...”
“Canajot
no tu sês nencja nasût,
cui ti a-el insegnât
l’educazion?”
la mâri:
”Jo je l’ài
insegnada
e jo j’ fasarai imparâ
encja il mistîr!”
Dopo un pâr di agns,
pasant par chel troi:
“Là as-tu stât, po,
giovin ? »
« A Venesia, ostrega ! »
« A ce fâ, po ? »
« A imparar el sarto,
ostregheta ! »
“J’ crodevi
il sssaltadôrr, cjecul”.
“Cjecul a mi,
bruta strachiza!”
Il balbuziente
Passavano per un sentiero
sotto il paese
il bambino
avanti,
sua madre
dietro.
Una donna, nel prato,
gli chiede:
“Dove vai, ragazzino?”
“Aaaa Venezia”
“A far cosa?”
“Aaaa scuola di sssaltatorr...”
“Ragazzaccio
Non sei neanche nato,
e chi ti ha insegnato
l’educazione?”
la mamma:
“Io glie l’ho
insegnata
ed io gli farò acquisire
anche il mestiere.
Dopo un paio d’anni,
passando per quel sentiero:
“dove sei stato,
giovanotto?”
“A Venesia, ostrega!”
“A far cosa?”
“A imparar el sarto,
ostregheta!”
“Io credevo
Il sssaltatorr, balbo”
“Balbo a me,
brutta sgualdrina”
Il Mortanolo
“Vus-tu bevi un tai,
Macôr?”
“Lu bevarès volantîr,
ma a’ disin ch’al à denti
il mortanolo (metanolo).
Se tu viôts
gno fradi Birul!
Al trima dut,
cusì giovin:
aj àn det
ch’al à il fiât!
capis-tu, il fiât
distrut
disintegrât,
e dopo ancje
la sterosi (cirrosi).
Ma se propri
tu vûs,
cà un bocâl,
tant,
plui da muart,
no tu čj pòs
spietâ!”
Il Mortanolo
“Vuoi bere un bicchiere di vino,
Macôr?”
“Lo berrei volentieri,
ma dicono tutti che ha
il mortanolo (metanolo).
Se vedi
mio fratello Birul!
E’ tutto un tremore,
così giovane:
gli hanno detto
che ha il fegato!
capisci, il fegato
distrutto
disintegrato,
ed ancora anche
la sterosi (cirrosi).
Ma se proprio
insisti,
dammi un boccale, tanto,
più della morte,
non puoi
aspettarti
altro!"
L’impresari
Il Ciribìt,
bon muradôr,
al si dava arias
da impresari.
In chei timps
da grada crisi,
milnufcent e vincjenûf,
al veva cjatât
da lâ a lavorâ
jù in basa Italia,
ta Sila,
in Calabria.
Un lavoròn:
segont lui
a’ coventava una ventina
di operaris.
Partant
al veva fat das cjartas
cun chest rapresentant.
Fat una riuniòn ta l’osteria,
al cîr di spiegâ
a chei omps disocupâts,
un tic preocupâts
pa lontanancia,
di non vê pôra:
chest nâs
no si lasa freâ,
j’ ài tant
di contràt,
no si pos scherzâ,
las cjartas dèvin
cjantâ.
E jù, ta Sila
a lavorâ.
Dopo cuindis dîs,
finîts i bêz
ch’a’ erint stâts
a dimprest,
il capo ch’al comandava
a’ ur dîs:
“Il paròn ‘l à falît,
al è scjampât ».
Imagjnaisi !
Sarès stada miôr
la fin dal mont.
Tignût un tic consei
fra lôr,
ai manda
Calò di Bandeu
a telegrafâ a cjasa.
Al sportèl
da l’Ufizi:
“Il testo?”
“Che faccia lei...”
“Cosa debbo scrivere
sul telegramma?”
“Finito il lavoro,
siamo senza soldi
scriveteci
spediteci
mandateci,
Nicolò Calabria”.
L’impresario
Il Ciribìt,
bravo muratore,
si dava arie
di impresario.
In quei tempi
di grande crisi,
millenovecentoventinove,
aveva trovato
lavoro
nel meridione d’Italia,
nella Sile,
in Calabria.
Un grande lavoro:
secondo lui
erano necessari venti
operai.
Pertanto
aveva stipulato un contratto
con questo rappresentante.
Riuniti in osteria,
cercava di spiegare
a quegli uomini disoccupati,
un po’ preoccupati
per la distanza,
di non aver timore:
questo naso
non si lascia fregare,
ho tanto
di contratto,
non si può scherzare,
carta
canta.
E giù, nella Sila
a lavorare.
Dopo quindici giorni,
finito il denaro,
preso
a prestito,
il capo
dice loro:
“Il padrone è fallito,
è scappato”.
Immaginatevi!
Meglio sarebbe stata
la fine del mondo.
Consigliatisi
fra loro,
incaricano
Calo di Bandeu
ad inviare un telegramma a casa.
Allo sportello
dell’Ufficio:
“Il testo?”
“Che faccia lei...”
“Cosa debbo scrivere
sul telegramma?”
“Finito il lavoro,
siamo senza soldi
scriveteci
spediteci
mandateci,
Nicolò Calabria”.
I doi cognons
(chel da femina e chel da l’om)
Rumôr,
Fracàs.
“Fracàs, smetila
di fâ tant fracàs”
Fracàs,
ch’a’ si rabeava
a clamâlu cusì:
“E tu,
Rumôr!
Dut il dì
cun chê machina da cusî;
‘j tu dâs fastidi
encja al Signôr!”
“Jodêt, jodêt
cè ch’a’ mi tocja:
vino di cavilâ
duta la vita
parcè che un
al si clama
Fracàs
e chel âti
Rumôr!”
I due cognomi
(della moglie e del marito)
Rumôr,
Fracàs.
“Fracàs, smetila
di fare tanto chiasso”
Fracàs
Che se la prendeva
Se lo chiamavano così:
“E tu,
Rumôr!
Tutto il giorno
Con quella macchina da cucire;
disturbi
anche il Signore!”
“Guardate, guardate
Cosa mi tocca:
dobbiamo litigare
tutta la vita
perché uno
si chiama
Fracàs
e l’altro
Rumôr!”
In friulano “chiasso” si traduce “fracàs” e rumore “rumôr”
La licenza da pescja
Imagjnàit
un paisùt
tacât tas monts
a mil metros
sul mâr,
là che i riùs,
partint sot i crets,
ai cor jù
sbatint l’âga
di clap in calp,
di un colôr
una volta
d’arint,
una volta
turchin jù, jù fin ta valada.
Las trutas
tar chestas âgas
trasparints
as cjata la lôr vita,
i pescjaôrs
ai pasa il timp.
Un ostîr,
vint pôc da fâ
via pal dì
cuant che la int
a lavora,
al pensa di lâ
in Municipi
a fâ la licenza
da pescja.
L’impegât, distrat,
al tòl dal casèt
un model sbalgjât
simpri pa pescja,
ma pescja
di “alto mare”.
Dopo cualchi dì
a riva ta placia
un auto;
dismòntin trê tipos
incravatâts
diriginsi subìt
viers l’ostaria.
Entrâts ai domanda
“del signor Gigolo”.
L’ostîr al rispuint:
“Soi jò”.
Chesc’ trê ai si
presenta:
“Dotôr...”
“Ispetôr...”
“Cjapitani...”.
Bevût un tajùt,
ai domanda di viodi
la barcja:
“Tu sês furtunât...
licenzas cusì
non si las rilasa
su pai dêts”.
La licenza
a è stada acetada
se la barcja
a rispuint
ai dovûts
recuisîts
pa navigaziòn
di “alto mare”.
La licenza di pesca
Immaginatevi
un paesino
arroccato sui monti
a mille metri
sul mare,
là dove i ruscelli,
partendo da sotto le cime
scendono giù
portando l’acqua
di sasso in sasso,
di diversi colori
a volte
come l’argento,
a volte
azzurro giù giù fin in fondo valle.
Le trote
in queste acque
trasparenti
trovano la vita,
i pescatori
trascorrono il loro tempo.
Un oste,
non avendo molto da fare
durante il giorno
quando tutti
lavorano,
pensa di recarsi
in Municipio
a chiedere la licenza
per la pesca.
L’impiegato, distratto,
coglie dal cassetto
un modulo errato
sempre per la pesca,
ma pesca
di “alto mare”.
Alcuni giorni dopo
arriva in piazza
un’auto;
scendono tre tipi
con cravatta
e subito si dirigono
verso l’osteria.
Entrando chiedono
“del signor Gigolo”
L’oste risponde:
“Sono io”
I tre si
Presentano:
“Dottor …”
“Ispettore …”
“Capitano ….”
Dopo aver bevuto
un bicchiere di vino
chiedono della barca:
“Sei fortunato …
licenze così
non si rilasciano
sulla parola”.
La licenza
è stata accettata
se la barca
risponde
alle specifiche
richieste
per la navigazione
in “alto mare”
L’om
A una certa
etât,
al dì di vuê
ch’al è dùt cambiât,
a si sint
adora
ch’a si va
in malora,
a si sint la vita
ch’a sta
par finî.
A l’arbul
aj còlin las fueas,
mancjant l’umôr
ch’a las nudriva;
a l’om
aj mancja
la voja di fâ,
a no’j va il mangjâ,
il pinsîr
al va indevûr
tal timp,
aj pasa pal cjâf
il pasât,
la miseria,
las strusias,
cè ch’a no’l à
podût realisâ.
Cè tantas rôbas
ch’al varès
da dî,
da lasâ
da contâ:
cè ch’al à fat
in duc’ i aigns
pasâts.
Di biel e, forsi,
di brut.
Dal ben,
soradùt,
bastarès ch’al fos
bon da scrivi
como ch’al à lavorât.
Alora ai colarès tanc’,
un grum
ch’ài àn nomo
scrit
cencia mai strusiâ,
cencia savê
cè ch’ai
scriveva.
L’uomo
Ad una certa
età,
al giorno d’oggi
ove tutto è cambiato,
si sente
molto presto
che si va
in malora,
si sente che la vita
sta
per finire.
All’albero
cadono le foglie,
mancando la linfa
che le nutriva;
all’uomo
gli manca
la voglia di fare,
non gli va più il cibo,
il pensiero
si volge indietro,
nel tempo,
gli viene in mente
il passato,
la miseria,
le fatiche,
quello che non ha
potuto realizzare.
Quante cose
avrebbe
da dire,
da lasciare
da raccontare:
quello che ha fatto
in tutti gli anni
passati.
Di bello e, forse,
di brutto.
Del bene,
soprattutto,
basterebbe che fosse
capace di scrivere
come ha lavorato.
Allora cadrebbero in tanti,
tanti
cha hanno solo
scritto
senza mai faticare,
senza sapere
quello che
scrivevano.
Il vecjut
Un vecjut,
di setant’aigns,
Rico da Sela,
cjatànt
Bortul da Lela:
“Là as-tu stât,
coscrit ?”
“A Udin,
a cjatâ
Jacum da Ciuvita”
“Cemût sta-el, po ?”
“Al à dîs aigns
di mancul
di nô,
ma ‘l è ridòt
un grebi,
gobo e malandât;
la sô femina, inveza,
âti che in gamba!
Pecjât
ch’a sêti lâts
a stâ
cusì lontans”.
Il vecchietto
Un vecchietto
di settant’anni,
Rico da Sela,
incontrando
Bortul da Lela:
“Dove sei stato,
coscritto?”
“A Udine,
a trovare
Jacum da Ciuvita”
“Come sta?”
“Ha dieci anni
di meno
di noi due,
ma si è ridotto
come un rudere,
gobbo e malandato;
sua moglie invece,
quella si che è in gamba!
Peccato
che siano andati
ad abitare
così lontano”.
Ostaria “Da Brusinič”
A Bortul Del Negro
a no’ i faseva mâl
la gjamba
como ch’al diseva:
a era di len.
Aj faseva mâl
che nisun
entrava a bevi:
bêz no’nd’era,
lui cencia una gjamba
lavorâ no’l podeva,
lasada fra miec
las tajas insanganadas,
via pal Wassinploch,
in Austria.
Svizers,
Austriacs,
o Todescs
par l’emigraziòn
pension no’nd’era.
Cuant ch’al rivava
un cinchìn
encja lui al gjoldeva
e Catìn a rideva;
nomo cuatri cartufulas
o un calarabar
miec litro di vin
al vendeva:
cun chei quatri
carantans
un’âta damigjanuta
al toleva.
I amîs
di Zuviel,
fra un miec e chel âti,
a pît ai restava,
specie d’invier,
cul frêt e la nêf
e duc’i chilometros da fâ:
cun Bortul ai restava
e duc’ insiema a durmî
si lava.
Catìn e Bortul
tal lôr jet
ai si slungjava;
che’âtis a bas,
sul paviment,
ai si ingrumava.
A buinora
al clamava:
“I vês buinas gjambas,
su pa Valcjalda
batêt
la ritirada”.
Osteria “Da Brusinič”
A Bortul Del Negro
non gli faceva male
la gamba
come riferiva:
era di legno.
Quello che gli faceva male era
che nessuno
entrava a bere:
soldi non c’enerano,
lui senza una gamba
non poteva lavorare,
lasciata in mezzo
ai tronchi insanguinati,
nel Wassimploch,
in Austria.
Svizzeri,
Austriaci,
o Tedeschi
per l’emigrazione
non c'era la pensione.
Quando arrivava
qualche centesimo
anche lui gioiva
e Catin rideva;
solo quattro patate
e una rapa
mezzo litro di vino
vendeva:
con quei quattro
carantani*
un’altra damigianetta
comprava.
Gli amici
di Zovello
fra un mezzo litro ed un altro,
restavano a piedi,
soprattutto d’inverno,
con il freddo e la neve
e tanti chilometri da percorrere:
con Bortul restavano
e tutti insieme a dormire
andavano.
Catin e Bortul
nel loro letto
si stiracchiavano;
gli altri per terra,
sul pavimento,
si stendevano.
Al mattino
chiamava:
“Avete buone gambe,
su per la Valcalda
battete
in ritirata”.
* Carantani: antiche monete del Trentino
Il pasât
Una vôlta
jo
no eri.
Cumò soi
encje
jo.
Benedetz
chei di una vôlta
che di lôr
vin tant
dismenteât!
Maledètz
chei di cumò
che dut àn
intoseât!.
Il passato
Una volta
io
non c’ero.
Ed ora ci sono
anch’io.
Siano benedetti
quelli di una volta
che di loro
abbiamo tanto
dimenticato!
Maledetti
quelli di adesso
che tutto hanno
inquinato!