
Casimiro De Colle (Miro) (1918-1991)
Poesie - Parte prima
Introduzione
Per esigenze grafiche e per non appesantirne la lettura, le oltre cento composizioni sono state suddivise in 4 sezioni, le prime tre comprendenti 26 poesie, la quarta 24. Un totale quindi di 102 di cui 68 già pubblicate nei due libretti del 1985 e ’88, nell’Almanacco Culturale della Carnia del 1991, nell'antologia in friulano "Amalars - antologje de leterature furlane" ed. Kappa Vu a cura di Alessandra Kersevan e nel libro "Carnia Libera 1944 - Guida al museo di Ampezzo" ed. Kappa Vu, 2006, di Brunello Alfarè. Le rimanenti 34 sono dunque inedite con titoli a volte redazionali. Ogni poesia può essere localizzata nella pagina cliccando sul titolo riportato all’inizio della sezione, mentre alla fine del testo, sulla destra, è inserita una freccia che consente di ritornare all’inizio di pagina.
A fianco si riporta anche la traduzione in lingua italiana che però in molti casi non rende giustizia della profondità di significato della parola carnica e, in tema di poesia, nemmeno della sonorità, a volte onomatopeica, del testo. In alcuni casi non è stato possibile trovare in italiano i termini adatti, non solo quelli gergali relativi alle diverse professioni, ma anche quelli di uso comune. La Carnia, pur nella sua limitata estensione territoriale, presenta una varietà di parlate che differiscono da paese a paese, talchè le stesse composizioni di Miro sono additate come esempio di parlata “žuvielana (zovellana) (vedi: https://it.wikipedia.org/wiki/Ravascletto), indicandone la peculiarità linguistica.
Si è cercato di fare il possibile, in attesa dell’apporto di qualche letterato-linguista (preferibilmente carnico) che consenta una più degna traduzione.
14. I gimui1
15. Sora pinsîr
16. Min e Tin
17. La busa
18. La politica
19. L’ingiustizia
20. Il cancar
21. Las letaras
22. L’ors di Pani
23. Il Partigiano
24. La Baita
26. I Carbinîrs - Àstu cjapât pôra mari?

La mari cjargnela
Cui podarae mai
conossila a fonz?
In tal so cûr
a siera das voltas
monz interias
di dolôr.
Quâl dal so sanc
podarae cjalâla
cun vôi di disonôr?
E cui su la cjera
podarael mai dâj
il just compens?
E cui podarae mai tornâj
il so sanc?
Il so grant amôr,
dutas las sos agrimas?
E pur cun quâl
coragjo
a rivolč incjimò
il sguart al passât.
E cun quâl
tremenda ansia
a cjala ogni tant
sora las monz
viers il cîl.
La madre carnica
Chi mai potrà
conoscerla a fondo?
Nel suo cuore
racchiude alle volte
montagne intere
di dolore.
Chi del suo sangue
potrà guardarla
con occhi di disonore?
E chi sulla terra
potrà mai darle
il giusto compenso?
E chi potrà mai restituirle
il suo sangue?
Il suo grande amore
tutte le sue lacrime?
Eppure con quale
coraggio
rivolge ancore
lo sguardo al passato.
E con quale
tremenda ansia
guarda talvolta
oltre i monti
verso il cielo.
Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

Catin e pre Tita
Siôr Santul
ch’a mi judi,
il gno cjamp di Cortolez
al’è striât!
I lu prei Siôr Santul,
ch’al vegna a benedîlu!
L’an passàt las cartufulas
as era como pedôi,
fasûi nond’era.
Chest an
no florissin nencja,
e i fasûi non saltin fûr da cjera.
J ài nomo chel cjamp
in chest mont
cenča nujâti
e ai mi stria encja chel!
Siôr Santul,
ch’al vegni a benedîlu!
Biada Catin!
J mi prepararai
vuê j no ài nuja cun me.
Doman dopo mesa;
j nin doman Catin.
Intant pre Tita
cenča jessi viodût
al va a cjalâ cemût cu era
tal cjamp di Catin.
L’indoman como convignût
Siôr Santul e Catin
a s’invîn a benedî
il cjamp di Cortolez.
Metuda la stola
breviari tar na man,
pre Tita devant
scongiurant e benedint,
alčant la man.
“Al vâl pôc la me man
s’a nond’è ledan!”
Catin preant di devûr
“ora pro nobis
ora pro nobis”
“Al vâl pôc la me man
s’a nond’è ledan!”
Catin di devûr
“Libera me Domine
Libera me Domine.”
Catin e don Tita
Reverendo
mi aiuti,
il mio campo in Cortolez
è stregato!
La imploro Reverendo,
venga a benedirlo!
L’anno scorso le patate
erano come pidocchi,
fagioli non ce n’erano.
Quest’anno
neanche fioriscono,
e i fagioli non nascono.
Ho solo quel campo
in questo mondo
e nient’altro
ed anche in quello mi fanno la fattura!
Reverendo,
venga a benedirlo!
Povera Catin!
mi preparerò
oggi non ho nulla con me.
Domani dopo la messa;
andiamo domani Catin.
Intanto don Tita
di nascosto
si reca ad ispezionare
il campo di Catin.
L’indomani come convenuto
il Reverendo e Catin
si avviano a benedire
il campo di Cortolez.
Indossata la stola
il breviario in una mano,
don Tita davanti
supplicando e benedicendo,
alzando la mano.
“La mia mano poco vale
se non c’è letame!”
Caterina pregando appresso
“ora pro nobis”
ora pro nobis”
“La mia mano poco vale
se non c’è letame!”
Caterina da dietro
“Libera me Domine
Libera me Domine.”
Il desideri
Al era un piez
che Nart e Rosuta
si tignivin
di voli:
scuintransi
o quant chài portava legnas
o quant cul gei
ai puartava ledan.
Lant a messa
pasansi qualche peraula
quant che nissun sintiva.
Ma il moment
nol vigniva
di jessi propri bessôi
encja se
tant Rosuta che Nart
ai ceriva
in duta las manieras
di soddisfâ
chel desideri.
Finalmenti
al si vizina
San Blâs
fiesta a Sudri
e par tradizion
grant ball.
Rosuta, duta servizievul
a cjacara cun sô mari
ch’a vores lâ
ta chê fiesta
a balâ.
J domandarai
chel rabiosat di to pari.
Bepo astu sintût?
Rosuta à domandât
di lâ a balâ
a San Blâs.
Cun cui laressie?
Svualt, Santina
Nart e Lina.
Ben ch’a vadie.
J soi propri
contente, pari,
grazia tant tant.
A è una biela fiesta.
Rosuta….
I ven encja jò….
Il desiderio
Era un bel po’
che Nart e Rosuta
si tenevano
d’occhio:
incontrandosi
o quando portavano legna
o quando con la gerla
portavano letame.
Andando a messa
bisbigliando qualche parola
quando nessuno sentiva.
Ma il momento
non veniva
di essere soli soli
anche se
sia Rosuta che Nart
cercavano
in tutti i modi
di soddisfare
quel desiderio.
Finalmente
si avvicina
San Biagio
festa a Sutrio
e per tradizione
grande ballo.
Rosuta, tutta servizievole
parla con sua madre
che vorrebbe andare
a quella festa
a ballare.
Chiederò
a quello scontroso di tuo padre.
Bepo hai sentito?
Rosuta chiede
di andare a ballare
a San Biagio.
Con chi andrebbe?
Svualt, Santina
Nart e Lina.
Va bene, vada pure.
Son proprio
contenta, papà,
grazie tante.
E’ una bella festa.
Rosuta....
Vengo anch’io....
Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

Pre Tita [1]
Pre Micjêl
titolâr da Parochia
di San Macjeu
a Monai
Pre Erminio
titolâr da Parochia
di Sant Andrea
a Giuviel.
Pre Tita inveča
al diseva mesa
a gratis
ta plui biela glesiuta
di dut il cumun,
a San Spirit,
cun di plui
al lava tal bosc
a fâ legnas
al lavorava la campagna
al faseva caritât
fin che in manicomi
a lu àn sgnacât.
Don Tita
Don Michele
titolare della Parrocchia
di San Matteo
a Monaio
Don Erminio
titolare della Parrocchia
di San Andrea
a Zovello.
Don Tita invece
celebrava messa
senza compenso
nella più bella chiesetta
di tutto il comune,
a Santo Spirito,
inoltre
andava nel bosco
a far legna
lavorava la campagna
faceva la carità
finchè in manicomio
l’hanno rinchiuso.
[1] Nelle precedenti edizioni il titolo alla poesia era “Pre Micjêl”, ma sia il contesto sia nella minuta il titolo più appropriato è “Pre Tita”
Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

La piora di Virginia
Virgjnia e la sô piora.
J vevi dut aì
J volevi bon como as mês fias
cun chel tic di lana
j fasevi las cjalčas
e la maia par l’invier.
Ai passa i Cosacs
devûr il stali
ai la clama
bee, bee.
Jê como una stupida
a rispuint
bee, bee,
a lan copada in Cjampei
sul jet di Ustina.
Viôt viôt
s’a podeva jessi cussi stupida
cun int ch’a no
conosseva.
La pecora di Verginia
Verginia e la sua pecora.
Avevo tutto lì
Le volevo bene come alle mie figlie
con quel po’ di lana
facevo le calze
e la maglia per l’inverno.
Passano i Cosacchi
dietro la stalla
la chiamano
bee, bee.
Lei come una stupida
risponde
bee, bee,
l’hanno uccisa in Cjampei *
sul letto di Ustina.
Guarda tu
se poteva essere così stupida
con gente che non
conosceva.
* Cjampei: località fra Zovello e Ravascletto
Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

No tu sês buina da nuia
Susana a passava
tai paîs in gîr a cuenti
a cerî la caritât.
A conosseva tanc’ omps
e a puartava simpri
cjamas di farina e formadi.
E tu Virgjnia?
Tant cjaminâ
e nissun no ti dà nuja.
J soi qualchi an plui vecja.
Va ben
ma a è la Bernarda
ch’a è stupida,
a mi ven voia
di patafala
Sei una buona a nulla
Susanna andava
in giro nei paesi
ad elemosinare.
Conosceva molti uomini
e portava sempre
grandi quantità di farina e formaggio.
E tu Verginia?
Tanto camminare
e nessuno ti dà niente.
Sono qualche anno più vecchia.
Va bene
ma è la Bernarda
che è stupida,
mi vien voglia
di schiaffeggiarla.
La femina cjargnela
A son trê.
Al à apena
cjantât il gjal
l’orloi da povera int.
Bisugna jevâ,
la femina par prima:
ai tocja a jê
il plui da fâ.
I fruts ai si rangja bessôi,
basta ch’ai sepi cjaminâ.
I setôrs ai son partîz
ma a è jê
che pas nûf
cun duta la spesa
tal gei ai tocja portâ
tar chel prât di mont
là ch’a vûl
dos oras di cjaminâ
par un pôc di fen
da seâ.
La donna carnica
Sono le tre del mattino.
Da poco
il gallo ha cantato
l’orologio della povera gente.
Bisogna alzarsi,
la donna per prima:
tocca a lei
il maggior lavoro.
I bambini ce la fanno da soli,
è sufficiente che sappiano camminare.
I falciatori sono partiti
ma è lei
che dà da mangiare a nove di loro
con tutte le provviste
da portare nella gerla
in quel prato di montagna
che per raggiungerlo
si impiegano due ore di cammino
per un po’ di fieno
da falciare.
Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell'Aprile 1988

Il consei da lataria
Il president al vierč la riunion;
al ordin dal consei
un sôl argoment:
la scrematrîs.
La presenta il
president.
A lui ai era entrada tal cjâf,
cussì al si era preparât
par spiegâ la roba ben
como cu lava,
in mût che i
conseîrs ai capis l’importanča da
scrematrîs.
Comparis,
sino duc’?
Alora la seduda a è vierta.
I volares spegâsu
benon
di ce ch’a si trata
cun chest consei.
Como ch’j vares savût,
in tantas latarias di
âtis paîs
a è biel in opera una machina
ca si clama
scrematrîs.
A vegnares a stâ
una granda pegna
ch’a screma il sîr,
dopo fat il formadi.
Cussì inveza di fâ scueta
a si fâs spongja.
Pensait, comparis,
ce rendiment!
Ma Zef
ch’a nol saveva
propri nuja
ai à parût un sproposit
chesta sbarada
e saltant su
como un sborf
ai vosa al president.
A son tanč aigns
ch’j tu sês president
j ti vin simpri rispetât
ma volê cjapânus par dordèi
chest po no,
compari Jacum.
Il president
al cîr di fâ
opera di persuasion
clamant in causa
chel malgâr
cun tun gran barbon
e che in chest campo
l’era un saveon.
Ma Vitôr
simpri tant tirât
da pora di scuignî pajâ
al dà reson a Zef.
Un âti ai dà reson a
Bortul.
Fato sta
che pa scrematrîs,
si cjapin pal nâs
duc’ i conseîrs.
Viodinsi pierdût,
il president
al vosa ai conseîr:
Comparis,
no stait a cavilâ!
J rimandin la seduda
e j cirarin qualchidun
par fânus spiegâ.
Dopo qualchi dì
il president al veva cjatât.
Cui miôr di Pre Tita
podeviel spiegâ?
Al era un predi
nasût tal paîs,
al saveva
tant indevant
e po
al veva vacjas encja lui.
Di nûf
si clama il consei.
Las spegazions
di Pre Tita
non son suficienz
par fâju persiadûz.
Al è impussibil
che dal sîr
dal formadi
a vegne fûr
spongja,
quant qualchi volta
a no ven nencja la scueta,
al vosa Zef.
Simpri plui idemoniât
clamant a so reson
Bortul e Nardon,
che ai àn dafâs
cun compari
Tita e Min.
L’è dut un ribalton.
Il president
cun fuarča
al riva a vê la calma.
Pre Tita
al pos di nûf fevelâ.
I crodevi
che in chest paîs
j fossis stâz
oms graigns!
Inveza
j ài cjatât
fruts di chèi graigns
ch’a no j san
incjamò resonâ.
Convocazione del consiglio in latteria
Il presidente apre la riunione;
all’ordine del giorno
un unico argomento:
la scrematrice.
La presenta il
presidente.
A lui era entrata in testa,
così si era preparato
per spiegare il tutto per bene
com’era necessario,
in modo che i
consiglieri potessero capire l’importanza della
scrematrice.
Compari,
siamo tutti?
Allora la seduta è aperta.
Vorrei spiegarvi
per bene
di cosa si tratta
in questa riunione
Come avrete saputo,
in tante latterie di
altri paesi
opera già una macchina
che si chiama
scrematrice.
Ovvero
una grande zangola
che screma il siero
dopo aver fatto il formaggio.
così invece di far ricotta
si fa burro.
Pensate, compari,
che rendità!
Ma Zef
che non sapeva
proprio niente
gli è parso uno sproposito
questa sparata
e sbottando
come una vipera
grida al presidente.
Sono tanti anni
che sei presidente
e ti abbiamo sempre rispettato
ma volerci prendere in giro
questo proprio no,
compare Jacum.
Il presidente
cerca di fare
opera di persuasione
chiamando in causa
quel malgaro
con una grande barba
e che in tale campo
era un sapiente.
Ma Vitôr
sempre tanto tirchio
nel timore di dover pagare
dà ragione a Zef.
Un altro dà ragione a
Bortul.
Sta di fatto
che per la scrematrice
si prendono per il naso
tutti i consiglieri
Vedendosi perso,
il presidente
grida ai consiglieri:
Compari,
non litigate!
Rimandiamo la seduta
e cercheremo qualcuno
per farci spiegare.
Dopo qualche giorno
il presidente aveva trovato la soluzione.
Chi meglio di Don Tita
poteva spiegare?
Era un prete
nato nel paese,
sapeva
molte cose
e poi
aveva delle mucche anche lui.
Di nuovo
si convoca il consiglio.
Le spiegazioni
di Don Tita
non sono sufficienti
a convincerli.
E’ impossibile
che dal siero
del formaggio
si produca
burro,
quando qualche volta
non si ottiene neanche la ricotta,
grida Zef.
Sempre più arrabbiato
chiama a suo sostegno
Bortul e Nardon,
che hanno rapporti
con i compari
Tita e Min.
E’ tutta una confusione.
Il presidente
con forza
riesce ad ottenere la calma.
Don Tita
può di nuovo parlare.
Credevo
che in questo paese
foste
uomini adulti!
Invece
ho trovato
bambini grandi
che non sanno
ancora ragionare.
La stracheča
Duarmistu biel,
Nena….
Duarmistu biel?
Sonos oras da sveâmi?
Tu sâs ch’a mi tocja
jevâ as quatri
ogni di…..
Tu par me
no tu âs mai timp
Nena.
Doman Nena
tu mi clamarâs
as tre e mieğa.
Va ben, va ben
ma tu ievarâs.
Chicchiricchii.
Ieva, Meni,
a son las tre e mieğa
la astu da lâ
di chestas oras?
I tu âs simpri
di lamentâti
simpri di bruntulâ.
Nena! Nena,
i voi sberlotati
cu la lenga
dal cjâf
in ju.
La stanchezza
Dormi di già,
Nena....
Dormi di già?
Son queste le ore di svegliarmi?
Lo sai che devo
alzarmi alle quattro
ogni giorno....
Tu per me
non hai mai tempo
Nena.
Domani Nena
mi sveglierai
alle tre e mezza.
va bene, va bene
ma ti alzerai.
Chicchiricchii.
Alzati, Meni,
sono le tre e mezza
dove devi andare
a quest’ora?
Devi sempre
lamentarti
sempre brontolare.
Nena! Nena,
vorrei schiaffeggiarti
con la lingua
dalla testa
in giù.
L’assistent sociâl
Las dôs asistenz sociâls
sot la trentina
crôt o no crôt
asàn divertît
dôs dozinas
di vecjos
sot e oltra la novantina.
A si cjata incjmò
int buina.
L’assistente sociale
Le due assistenti sociali
sotto la trentina
credilo o meno
hanno divertito
due dozzine
di vecchietti
al di sotto ed oltre la novantina.
Si trova ancora
buona gente.
L’emigrato
Si chiama MattMark [1]
si chiama Marcinelle [2]
C’è un treno ogni giorno
che dal sud
porta in quell’inferno
gli emigrati.
Caserio lasciò il suo paesello
lasciò la mamma
e all’estero
andò con il suo fardello.
In cerca di lavoro e di fortuna.
Caserio non morì
nella miniera
venne colpito da mano
straniera.
Fu picchiato a sangue,
sul marciapiede fu gettato
da tre giovinastri ammazzato.
Gli assassini
a due anni condannati
Piangon di rabbia
gli emigrati.
[1] La catastrofe di Mattmark fu una valanga che il 30 agosto 1965 investì il cantiere per la costruzione della diga di Mattmark, in Svizzera. I morti accertati furono 88: 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci e un apolide.
Da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Sciagura_di_Mattmark
[2] Il disastro di Marcinelle avvenne la mattina dell'8 agosto 1956 nella miniera di carbone Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio. Si trattò di un incendio che provocò la morte di 262 persone in gran parte emigranti italiani.
Da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Disastro_di_Marcinelle
Lat e fasûi
Gno von tal lûc di Melaria
su la strada par Monai
al veva un stalut
tacada una stanzuta
ca serviva da cusina.
Sentât di fûr
viers miesdì
al mangjava lat e fasûi.
Su la strada a si ferma
un’auto.
Un aveniment
dal milnufcent e vincjequatri.
Il conducent al dismonta
e lant viers di lui
ai domanda la strada
par Monai.
Viodint cè ch’al mangjava,
ai domanda:
Ce vêso ch’j mangjais?
Mieč par talian
mieč par furlan
ai rispuint:
Lat e fasoi
ai son molto buoni,
e se li magna
in tante maniere.
In jò … (jota)
In bo … (brodo)
In pagjè … (padella)
Quincià in salà … (insalata)
In mignè … (minestra)
Rustì … (in padella)
e se li magna anche col puign.
Latte e fagioli
Mio nonno nel luogo detto della “melaria”
lunga la strada per Monaio
aveva un piccolo stavolo
con annessa una stanzetta
che serviva come cucina.
Seduto all’esterno
verso mezzogiorno
mangiava latte e fagioli.
Sulla strada si ferma
un’auto.
Una novità
nel millenovecento e ventiquattro.
Il conducente scende
ed andando verso lui
chiede la strada
per Monaio.
Vedendo quel che mangiava,
gli chiede:
Cos’è che mangiate?
Un po’ in italiano
un po’ in friulano
gli risponde:
Lat e fasoi (latte e fagioli)
ai son molto buoni, (sono molto buoni)
e se li magna (si mangiano)
in tante maniere. (in molti modi)
In jò … (jota [1])
In bo … (brodo)
In pagjè … (padella)
Quincià in salà … (conditi in insalata)
In mignè … (minestra)
Rustì … (in padella)
e se li magna anche col puign.
(e si mangiano anche con le mani)
[1] Per migliori delucidazioni sulla “jota” vedi:
http://www.oggi.it/cucina/ricetta/jota-friulana-con-crauti-e-maiale/
Il coscrit
Ai son tornâz
i coscriz da visita.
Ai dismonta dal cjar
ta placia.
Franz,
al à so mari a spietâlu.
Franz,
anin a cjasa,
Cui sestu porca M…?
To mari
a non viôt âti:
E se porca la M….
Il fî cjoc:
Vàatin.
Scaleta ch’al sintiva:
ce aiel det Zenobia?
Al à det
porca M….
Ma nomo, nomo Zenobia.
Tu pos crodi
las ridadas di Scaleta
a fâ blestemâ
una femina
ch’a lava a comunicasi
ogni buinora.
Il coscritto
Sono tornati
i coscritti dalla visita di leva.
Sono scesi dal carro
in piazza.
Franz,
ha sua madre ad aspettarlo.
Franz,
andiamo a casa.
Chi sei porca M....?
Tua madre
non vedo più:
E se porca la M.....
Il figlio ubriaco:
vattene.
Scaleta che sentiva
cos’ha detto Zenobia?
Ha detto
porca M.....
Ma no, no Zenobia.
Puoi credere
le risate di Scaleta
nel far bestemmiare
una donna
che riceveva la comunione
ogni giorno
I gimui
Cui sonei
chèi doi gimui?
Nevôz dal Casson.
Ma di cuai?
Di Chei da cason.
Il Casson
al veva dôs fias;
una à tolet
so cusin
fî di un fradi
dal Casson;
cheata inveza
à sposât
un di chei
dal cason
e i gimui ai son
nevôz dal Casson.
I gemelli
Chi sono
quei due gemelli?
I nipoti dal Casson *.
Ma di quali?
Di quelli dal cason *.
Il Casson
aveva due figlie;
una ha maritato
suo cugino
figlio di un fratello
del Casson;
l’altra invece
ha maritato
uno di quelli
dal cason
e i gemelli sono
nipoti del Casson.
* Casson: nomignolo
* cason: località di Zovello
Sora pinsîr
Comari
ce ch’and’è
cha sunin las cjampanas?
Al è muart
il Signôr.
O sa po iesi
i no vevi
mai sintût
cal seti stât malât.
Distrazione
Comare
cos’è successo
che suonando le campane?
E’ morto
Gesù.
Come,
non avevo
inteso
che fosse ammalato.
Min e Tin
Quant ch’ai lava a
sunâ
Min cul liron
Tin cul viulin,
a noj voleva la paja
ma ai beveva
dîs litros di vin
cenča contâ
quatri gros
fra Zenziglio e Macubin.
Cemût erie?
No si sa?
Ma plui ai beveva e tabacava
e miôr ai sunava.
Ai era doi fradis
comunisc’.
Un omenon Min
un tic plui mingherlin Tin.
Quant che dal vincjedoi
a ju àn puartâz
ta plača
par daur il quart
dal vueli di riz
lecansi i âvris
ai domanda la ğonta
e ai ringrazia i fasisc’.
Doi brâfs muradôrs,
ma par lôr
lavôr nond’era!
Cussi ai si cjapava
quant ch’ai podeva
fra tabacs
vin
lirons e viulins,
par para via
la rabia,
la miseria di
setemanas,
mês,
aigns
ingrumada tal stomi
ch’a sameava
no vê âti fin.
La guera da l’abisinia
e da Spagna
à metût fin
encja a chês
sunadas.
Prima da murî
di fan
chei biâz ğovins
si metin in nota
par partî
seti mo soldâz
contadins
o milizians.
Cussì ai son restâz
disocupâz
encja i sunadôrs
Min e Tin.
Min e Tin
Quando andavano a
suonare
Min con il contrabbasso
Tin con il violino,
non accettavano denaro
ma bevevano
due litri di vino
senza considerare le
quattro confezioni
fra Zenziglio e Macubin [1].
Ma come?
Non si sa?
Ma più bevevano e sniffavano tabacco
e meglio suonavano.
Erano due fratelli
comunisti.
Di grande stazza Min
un po’ più mingherlino Tin.
Quando nel ventidue
li hanno portati
sulla pubblica piazza
per costringerli a bere
l’olio di ricino
leccandosi le labrra
hanno chiesto il bis
ringraziando i fascisti.
Due bravi muratori,
ma per loro
lavoro non c’era!
Così si trovavano
quando potevano
fra tabacco
vino
contrabbassi e violini
per allontanare
la rabbia,
la miseria di
settimane,
mesi,
anni
ammassata nello stomaco
che sembrava
non aver mai fine.
La guerra dell’Abissinia
e della Spagna
ha messo fine
anche a quelle
melodie.
Prima di morire
di fame
quei poveri giovani
si mettono in lista
per partire
o come soldati
contadini
o miliziani.
Così sono rimasti
disoccupati
anche i suonatori
Min e Tin.
[1] tabacchi da fiuto di a1ta qualità della regìa italiana
La busa
Faila granda avonda
che busa,
si no doman a è fadia
a meti denti
la cassa …
Maledetas las lengatas!
A no san
ce ch’a vûl dî
fâ una busa
di un metro e otanta.
Maledeta la miseria
no podaressino
murî d’astât
chesta int?
Zelmo,
tu às fat
pôc in sot
che busa.
Encja tu
sacrament!
E po
sastu ce ch’j ài
da dîti….
S’al scjampa
j rispuint jò.
La fossa
Scavala larga al bisogno
la fossa,
altrimenti domani si fa fatica
a calare
la bara.....
Maledette lingue!
Non sanno
cosa vuol dire
scavare una fossa
di un metro e ottanta.
Maledetta la miseria
non potrebbero morire
d’estate
questa gente?
Zelmo,
hai scavato
poco
quella fossa.
Anche tu
sacramento!
E poi
sai cosa devo
dirti....
Se scappa
io ne rispondo
La politica
Ce si podie fâ
Cemôt insegnâ?
Quant che mil insidias
a son in ogni moment
prontas a disfâ.
Cemôt che biada int
podie tirasi fûr
fra religions e partîz
sanz e deputâz
sindacâz e senatôrs
predis ch’a no si conossin âti
ben tosâz e barbirâz
vistîz encja in clâr.
Fraris ch’ai son tant
che Casanova.
Muinias al pari
che las Miss
cu l’auto
e vistidas a stris
Cardinâi e gjenerâi
regjstas e scritôrs
cjantanz e atôrs
professionisc’ di ogni sorta.
Governos e ministeris
cun centenârs di comissions,
istitûz
par tantas delusions
Radios e televisions
motos e autos
vilas e autostradas
vistîz e scarpas
di ogni colôr
par colpa dal diaul?
O dal Signôr.
La politica
Cosa si può fare
Come insegnare?
Quando mille insidie
sono ad ogni momento
pronte a tutto distruggere.
Come può, quella povera gente,
prender coscienza
fra religione e partiti
santi e deputati
sindacati e senatori
preti che non si riconoscono più
ben sistemati
vestiti anche in chiaro.
frati che sono come
un Casanova.
Monache alla pari
delle Miss
con l’auto
e vestite alla moda
Cardinali e generali
registi e scrittori
cantanti ed attori
professionisti di ogni sorta.
Governi e ministeri
con centinaia di commissioni,
istituti
per tante delusioni
Radio e televisioni
moto ed auto
ville e autostrade
vestiti e scarpe
di ogni colore
per colpa del diavolo?
O del Signore.
L’ingiustizia
Pari,
parce no compristu una volta
un tic di pan?
I fîs dal maestri
da coperativa
chei dal becjâr
chei dal tabachin
chei dal farmacist
e i doi dal segretari fassist
ai lu comprin ogni dì.
A scuela
ai puarta las neranzas
e i mandarins.
Santissima Trinitât,
esel pussibil mo,
cun chel cjalčumit
ch’j vin a Roma
sostignût da chelâti
ch’al si fâs viodi
a puartâ
la mantelina di ermelin
capistu frut
la mantelina
e il cuarpet ros
e al vent
ostias consacradas.
Cui podial comprâ
pan?, pan!
Tar chei paîs a cuenti
tu viôz!
Chei ch’ai àn la vacja
ce fadias ch’ai fâs
par mantegnila
e dopo?
Ai scuignin
vendi la spongja
par comprâ gras di manč,
vendi l’ûf di gjalina
par comprâ mortadela.
A vûl il bolscevismo!
Il bolscevismo,
capistu frut.
Sinò nissun tira via
chei farabuz.
Al era alc
se Zaniboni qualchidun
al ves smirât
un tic plui just!
L’ingiustizia
Papà,
perchè non mi comperi almeno una volta
un po’ di pane?
I figli del maestro
della cooperativa
quelli del macellaio
quelli del tabacchino
quelli del farmacista
e i due del segretario fascista
lo comperano ogni giorno.
A scuola
portano le arance
e i mandarini.
Santissima Trinità,
è possibile,
con quello spazzacamino
cha abbiamo a Roma
sostenuto da quell’altro
che si fa vedere
a portare
il mantello di ermellino
capisci figlio
il mantello
e il corpetto rosso
e vende
ostie consacrate.
Chi può comprare
pane? pane!
Nei nostri paesi
lo vedi!
Quelli cha posseggono la mucca
quante fatiche fanno
per mantenerla
e dopo?
Devono
vendere il burro
per comprare sego di bue,
vendere l’uovo della gallina
per comprare mortadella.
Ci vogliono i bolscevichi!
I bolscevichi,
capisci figlio.
Altrimenti nessuno manda via
quei farabutti.
era già qualcosa
se Zaniboni[1]
avesse mirato
un po’ più preciso!
[1] Tito Zaniboni (Monzambano, 1º febbraio 1883 – Roma, 27 dicembre 1960), noto per aver organizzato il primo fallito attentato contro Mussolini il 4 novembre 1925. Alla caduta del fascismo ricoprì l'incarico di Alto commissario "per l'epurazione nazionale dal fascismo". Da Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Tito_Zaniboni
Il cancar
Al à di jessi riunda
cjargnela.
Prima incjmò ch’a lu si conosses
nô cjargnei si diseva:
tu sês un cancar.
Nol è di dî
ch’al vebi un debul
magari viers qualchi biela fruta
o movisi in compassion
di front di un vecjut
di lui duc’ ai àn pora dapardut.
Ai àn encja cerût
di cambiâi nom
par no fâ tanta pora.
Tumôr, carcinoma, massa nera.
And’è di tantas razas
benigns e maligns
ch’ai son setasi
o metastasi
di prin, second o tierč grât
tancu la gjerarchia militâr.
Al ti beca, al ti fâs ghizi
al balina par di ca
o par di là,
secont il propri gust
cenča vê pietât
e par no dâte
incjmò vinta
al si contenta a murî
cun te.
Plui cancar di cussì.
A mi è capitât
di scuintrâlu
tal ambulatori di un otorino
dopo siet vot mês ch’ai lu cerivint
sora il nâs
devûr las vorelas
sot las gramulas
cun ogni qualitât di impresc’
e machinaris
fin cul cjâf
tar una granda lavatrice
clamada TAC,
ch’a vûl sorta di professors
par dâj il contat.
A la fin al ti capita fûr
cenča scomponissi
como par dîti piu, piu.
Là ch’a si è scuviert
crodint di fâla portâ
ai à metût man:
un toc di om,
un otorino, un metro e novanta
mans como chês dai menaus
al veva parecjât una podina
tra pinzas e fuarfis
tanajas cui dinc’
pugnai curtis e rosôrs
manečas e mascaras su pa musa,
aiutanz di ogni banda.
J ài pensât fra di me:
in cinc minûz lu fasin fûr.
Dopo siet oras ai vevin
quasi copât l’om.
E il cancar non si sa.
Il cancro
Deve essere di origine
carnica.
Prima ancora che lo si conoscesse
noi carnici si diceva:
sei un canchero.
Non è da dire
cha abbia un debole
magari verso una bella ragazza
o moversi a compassione
di fronte ad un vecchietto
di lui e dappertutto tutti hanno paura.
Hanno anche cercato
di cambiargli il nome
per non provocare tanta paura.
Tumore, carcinoma, massa nera.
Ce ne sono di tanti tipi
benigni e maligni
che sono secondari
o metastasi
di primo, secondo o terzo grado
come la gerarchia militare.
Ti punge, ti solletica
va di qua
o di là
con le proprie preferenze
senza aver pietà
e per non dartela
vinta
si accontenta di morire
con te.
Più canchero di così.
Mi è capitato
di incontrarlo
nell’ambulatorio di un otorino
dopo sette otto mesi che lo cercavano
sopra il naso
dietro le orecchie
sotto le mascelle
con ogni qualità di attrezzature
e macchinari
persino con la testa
in una grande lavatrice
chiamata TAC,
che necessita di professori
per farla funzionare.
Alla fine si palesa
senza scomporsi
come per dirti piu, piu.
Là dove l’avevano trovato
da presuntuosi
gli hanno messo mano:
un pezzo d’uomo,
un otorino, un metro e novanta
mani come quelle dei boscaioli
aveva preparato una bacinella
con pinze e forbici
tenaglie con i denti
pugnali coltelli e rasoi
guanti e maschere sulla faccia,
aiutanti da ogni parte.
Ho pensato:
in cinque minuti lo fanno fuori.
Dopo sette ore avevano
quasi ucciso l’uomo.
E il cancro non si sa.
Las letaras
Bepo
scrîf a Vigj
ch’al mandi i bêz
da comprâ il purcit,
sinò chest invier
no si cuinča la mignestra.
Dami la direzion, Mariana.
Vigj Rumor
San Gjàl Svizera.
Cjara Mari,
J su ài mandât
i bêz
l’an pasât
par comprâ il purcit,
j podevis tignîlu da cont
ch’al era cussi biel
e no copâ chel grant
par toli un pičul.
Sint po Bepo,
a disin
che la Svizera
a è tant indevant
ma a Vigj
ai àn insegnât
lafè pôc!
Le Lettere
Bepo
scrive a Vigj
che invii soldi
per comprare il maiale,
altrimenti questo inverno
non si condisce la minestra.
Dammi l’indirizzo, Mariana.
Vigj Rumor
San Gallo Svizzera.
Cara mamma,
vi ho inviato
i soldi
l’anno scorso
per comperare il maiale,
potevate tenerlo bene
che era così bello
e non macellare quello adulto
per prenderne uno piccolo.
Senti Bepo,
dicono
che la Svizzera
è molto avanti
ma a Vigj
hanno insegnato
ben poco!
L’ors di Pani
L’ors di Pani
al ti plantava
doi vôi ta musa
como doi stiz impiâz;
sul cjâf
al veva plui fen
che cjavèi,
la barba rossita
plena di picusei.
Pazienza di dì,
ma di ogni ora encja di not
chei da Garibaldi
o chei dal Osôf
lu fasevin jevâ
magari a son di blestemas
ma a duc’
al dava alc
da mangjâ.
L’orso di Pani
l’orso di Pani *
ti guardava in faccia
con i suoi occhi
come due brace ardenti;
sulla testa,
aveva più fieno
che capelli,
la barba rossiccia
piena di escrescenze.
Era accettabile durante il giorno,
ma ad ogni ora anche di notte
quelli della Garibaldi
o quelli dell’Osoppo
lo facevano alzare
magari con le bestemmie
ma a tutti
dava qualcosa
da mangiare.
* Vedi Wikipedia:
Il Partigiano
Siamo tutti fratelli
siamo tutti compagni
combattiamo da prodi
perché siam partigiani
ci chiaman ribelli
perché non vogliam
della loro patria
esser zimbelli
Con il nostro coraggio
e senza tante mitraglie
liberiamo il popolo dalle canaglie
Vogliamo l’Italia
liberar dall’invasore
perché il suo popolo
abbia un domani migliore.
La baita
Cjavai cun sperons
plantâz ta panza
cjans ringhiôs
cu la bocja spalancada
mitraglias impuestadas
siabulas tar una man,
fusii, mitras, parabei
tar cheâta
pronz par fâju fûr
i ribei.
Caricaa!!!
Ai si scjadena
i Cosacs
che cuant ch’ai son a cjaval
sono como maz.
La pičula baita
trasformada
cui propri cuarps
in fuartin
a si difint
ma no si rint.
Circondada,
cjapada d’asalt,
fra colps,
strissas di fûc
crasuladas di mitraglia,
la nêf ch’a si disfâs
e i cjavai
che bielğa a si ritira
dopo l’assalt.
Bisugna entrâ,
âti no si pos fâ.
Di denti!
No una vôs,
no un lament,
nencja quant
che las flamas
as juda l’alba
a vegni dì
tre partigjans
son crivelâz.
Doi ferîz a vegnin
cjapâz:
ai saran fusilâz
in preson,
dopo jessi jessûz vuarîz
da l’ospedâl.
La baita
Cavalli con speroni
conficcati nella pancia
cani ringhiosi
con la bocca spalancata
mitraglie appostate
sciabole in una mano,
fucili, mitra, parabellum
nell’altra
pronti ad ammazzarli
i ribelli.
Caricaa!!
Si scatenano
i Cosacchi
che quando sono a cavallo
sembrano dei matti.
La piccola baita
trasformata
con i propri corpi
in fortino
si difende
ma non si arrende.
Circondata,
presa d’assalto,
fra colpi,
strisce di fuoco
crepitii di mitraglia,
la neve che si scioglie
e i cavalli
che già si ritirano
dopo l’assalto.
Bisogna entrare,
altro non si può fare.
Dentro!
Non una voce,
non un lamento,
neanche quando
le fiamme
aiutano il sorgere
dell’alba
tre partigiani
sono crivellati.
Due feriti sono
catturati:
saranno fucilati
in prigione,
dopo essere usciti guariti
dall’ospedale.
La Republica di Cjargna
La Republica di Cjargna
a era in genoglon;
chesta volta
a ju fasin murî di fan
par dabon.
No j vevin però
fat i conz
cun châta resistenza
ch’as era
las maris
las sûrs
las murosas
e tantas, tantas
âtas feminas
in ogni paîs;
che, batint
ogni troi,
ogni strada
cun logjâs e cun cjars,
su trenos e camions,
dai stes Todescs
girin in lunc e in larc
dut il Friûl,
baratant il propri coredo
umiliansi
a cerîr la caritât
suplicant
un puign di farina da polenta
che purtrop
da tanc’ di lôr
a vegniva neada
sbonbantsi
se la Cjargna
era martoriada.
Metudas a provas
spaventosas
chês biadas feminas
dut as acetava
pur di podê
tornâ al paîs
a sfamâ
chei ğovins ch’ai sietava.
Tar una busa,
tar una baita
dulà che encja la nêf
a faseva la spia
mostrant la ferada.
La Repubblica della Carnia
La Repubblica della Carnia
era in ginocchio;
questa volta
li fanno davvero
morire di fame.
Non avevano però
tenuto conto
dell’altra resistenza
fatta
dalle madri
le sorelle
le morose
e tante, tante
altre donne
in ogni paese;
che, percorrendo
ogni sentiero,
ogni strada
con slitte e carri,
su treni e camion,
degli stessi Tedeschi
girano da ogni parte
per tutto il Friuli,
barattando il proprio corredo
umiliandosi
a chiedere la carità
supplicando
un pugno di farina di granoturco
che purtroppo
da tanti di loro
era negata
indifferenti
se la Carnia
era martoriata.
Messe di fronte a prove
spaventose
quelle povere donne
tutto accettavano
per poter
tornare al paese
a sfamare
quei giovani che aspettavano.
In un buco,
in una baita
dove anche la neve
faceva la spia
palesando l’orma.
I Carbinîrs
Àstu cjapât pôra mari?
Ai era encja i
carbinîrs!
Astu cjapât pôra,
Mari?
A mi è passada
ma ai àn det
ch’ai torna a ceriti,
e ch’i tu riscjas la fusilazion
s’ai ti cjapa.
Ai era encja i carbinîrs!
Astu cjapât pôra, Mari?
Viôt ca no ti cjapi!
Cheata guera
chei carbiriraz,
ai fusilava
chei biâz soldâz
plens di fan,
plens di pedói,
duc’ sbregâz
ch’ai si ritiravin dal front
dopo ch’a era stada la rota.
Jo j ài pôra
di chei carbiniraz
a no j son da nesta int.
(Dicembar 43)
Astu cjapât pôra,
Mari?
Domanda la int dal paîs.
And’era un camio di
Inglês,
un camio
di Polizia
e un camio di carbiniraz.
And’è stâz di ogni raza
in chesta cjasa.
Fassisc’ e Todescs,
Mongui e Cosascs
ma no mi àn fat
tanta pôra e rabia di vuê.
Ai àn tirât su
las breas dal palment
da to cjamera,
ai cerivint armas.
Un carbinirat
parcé ch’j ài vosât,
al mi à menaciada
di puartâmi “al fresco”
dopo tantas ch’jnd’ai provadas.
Maladez chei carbiniraz.
Tu âs da presentati dai carbinîrs
in caserma?
Chei ai ti metin
un’âta volta in preson!
Dopo dut ce ch’j tu às fat!
Ma jo j voi ju
cu la manaria
di chei carbiniraz.
Tu às reson Mari,
dibant no ju clamin
“Fratelli Branca.”
Dibant
a no j àn
la flama ta bareta
como il cit
ch’a si impia ta strada
par segnâ
il pericul.
No incjmò contenz
ai ti àn portât via
la gjacheta di partigjan,
las scarpas,
il telo inglês
ch’j tu vevas di fâti i bregons.
Cumò j no tu às nuia
da meti da disdivôra!
Jò j ju ài odeâz
j no pos jòdiu
chei carbiniraz.
(Agosto 45)
I Carabinieri
Hai avuto paura mamma?
C’erano anche i
carabinieri!
Hai avuto paura,
Mamma?
Mi è passata,
ma hanno detto
che ritorneranno,
e che rischi la fucilazione
se ti prendono.
C’erano anche i carabinieri!
Hai avuto paura, Mamma?
Stai attento, possono catturarti!
Nell’altra guerra
Quei carabinieri,
fucilavano
quei poveri soldati
affamati,
pieni di pidocchi,
tutti stracciati
che si ritiravano dal fronte
dopo lo sfondamento.
Io ho paura
di quei carabinieri
loro non sono dei nostri
(Dicembre 43)
Hai avuto paura,
Mamma?
Chiedi alla gente del paese.
C’era un camion
di Inglesi,
un camion
di Polizia
e un camion di carabinieri.
Ci son stati di ogni razza
in questa casa.
Fascisti e Tedeschi,
Mongoli e Cosacchi
ma non mi hanno fatto
tanta paura e rabbia come oggi.
Hanno sollevato
le assi del pavimento
della tua camera,
cercavano armi.
Un carabiniere
poiché ho alzato la voce,
mi ha minacciato
di portarmi “al fresco”
dopo tutto quello che ho passato.
Maledetti quei carabinieri.
Devi presentarti dai carbinieri
in caserma?
Quelli ti mettono
un’altra volta in prigione!
Dopo tutto quello che hai fatto!
Ma io vado giù
con la scure
da quei carabinieri.
Hai ragione Mamma,
per niente non li chiamano
“Fratelli Branca.”
Per niente
non hanno
la fiamma sul berretto
come la lanterna
che si accende
per segnalare
il pericolo.
Non ancora contenti
ti hanno requisito
la giacca di partigiano,
le scarpe,
il telo inglese
con cui dovevi cucirti i pantaloni.
Ora non hai più niente
da metterti nei giorni feriali!
Io li ho odiati
io non li posso vedere
quei carabinieri.
(Agosto 45)