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In questa sezione riproduciamo, con relative prefazioni/note introduttive, la prima pagina di copertina dei due libretti pubblicati con i tipi di G.  Zorzut di Cormons nel 1985 e nel 1988 dal titolo rispettivamente:

 

  • PAR NO DISMENTEȂ (astu cjapât pôra mari?) (1985)

  • PAR NO DISMENTEȂ  … E CJALȂ INDEVANT – Storias di Cjargna, di cjargnei … di pais e di tant ingegn) (1988)

 

Nel primo libretto erano pubblicate 40 poesie con foto di alcuni lavori in gesso, legno o metallo eseguiti da Miro.

Il secondo libretto raccoglieva 45 poesie di cui 21 inedite, e due componimenti a struttura discorsiva ("La vacja" e "Il sostegno da famea"); fu presentato ufficialmente a Zovello il 30 Aprile 1988, presso l’Hotel Harry’s, dalla Dr.ssa Piera Rizzolatti della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università degli Studi di Udine, curatrice del libretto ed autrice della Nota Introduttiva. Alcune foto dell’evento sono di sotto riprodotte.

 

 

Pubblicazione dicembre 1985

Olimpia Barbacetto

La madre dell'Autore, Olimpia Barbacetto 

INTRODUZIONE DELL’AUTORE 

 

Nel pomeriggio del 2 maggio 1945 [1] passavo sotto il paese di Zovello con le mani legate dietro la schiena. Assieme ad altri ero stato preso come ostaggio, fra i paesi di Ovaro e Comeglians, dalla colonna dell’Armata Cosacca che aveva presidiato tutti i paesi carnici ed ora in ritirata diretta verso il confine austriaco attraverso il passo di Monte Croce Carnico.

Appena saputo il fatto, mia madre si precipitò giù dal paese per una scorciatoia in mezzo agli arbusti fino ad incontrare la strada e quindi la colonna cosacca per rivedere il figlio che stava per essere condotto al plotone d’esecuzione. La vidi immobile sul pendio in parte alla strada aggrappata ad un arbusto, con i piedi scalzi in mezzo alla neve ed al ghiaccio (l’inverno del 1944 sembrava non finisse mai) perché nella corsa su quel tragitto scosceso aveva perso gli zoccoli.

I nostro sguardi si incontrarono per pochi istanti e non vidi in lei alcun segno di debolezza o di scoraggiamento, né una lacrima negli occhi. Voleva trasmettermi il suo coraggio, voleva dirmi di essere forte.

Neanche quando fui colpito con una nerbata su una spalla perché avevo contravvenuto all’ordine di guardare fisso in avanti (temevano che facessimo qualche segnale ai partigiani), nemmeno allora sentii la sua voce, un suo lamento.

Il 9 maggio, sempre nel pomeriggio, in seguito a patteggiamenti, fummo liberati e tornai a casa. Riabbracciando mia madre sentii sulla mia guancia l’umidità di qualche lacrima.

Da qui l’idea di lasciare qualche cosa di lei e di tutte le donne carniche di quei tempi che stupirono per il loro coraggio, ma che nessuno seppe ricordare, lodare, gratificare nemmeno in minima parte.

Sono così nate La Madre Carnica (scritta nel 1945), La Donna Carnica, ecc.

Dal ricordo dei fatti più significativi della lotta partigiana vennero poi la Fogliolina, Il Partigiano, La Pecora di Virginia, La Baita, La Repubblica della Carnia.

Dopo la liberazione, dopo tanto tempo (per quasi un anno durò il coprifuoco) ci si poteva di nuovo riunire nelle case, dialogare, discutere; potevamo ricordare il passato, ci potevamo raccontare le cose viste, ecc. Da qui Min e Tin, Di Padre in Figlio, La Busa, Non sei Buona a Niente, Latte e Fiagioli ed altre.

L’occupazione inglese non fu prodiga: dopo tanta fame patita furono distribuiti due chilogrammi di farina a testa. Non c’era pane, non c’era sale… Praticamente non esistevano ancora i mezzi di trasporto: solo qualche raro treno arrivava alla Stazione per la Carnia; poi da lì a piedi fino ai paesi.

Dato che nessuna autorità era in grado di provvedere ai rifornimenti alimentari, le donne ricominciarono il solito calvario consistente nello scendere a valle nella pianura friulana in cerca di farina di granoturco. Ma ahimè, per loro non era cambiato niente! O nel viaggio di andata quando portavano con sé qualche uovo, un lenzuolo di lino ricamato del proprio corredo, ecc. o in quello di ritorno con 10 – 12 chilogrammi di farina, i soldati inglesi confiscavano loro la merce.

Alla fine i soldati inglesi erano odiati quanto, a suo tempo, lo erano stati i tedeschi. Da qui Hai preso paura Mamma?, Caterina e Pre Tita ed altre.

Emigrato nel 1947 in Svizzera, per qualche tempo scordai il passato dedicando tutto il tempo libero all’attività politica ed all’organizzazione sindacale. Queste attività mi diedero soddisfazione ma anche tanta amarezza, fino alla delusione. Da qui L’Emigrato, La Politica, I Dimenticati ed altre.

Rientrato in Italia negli anni ’70, potei vivere ancora qualche anno con mia madre, che di tanto in tanto mi faceva ritornare in mente quei ricordi rimasti incollati nella testa. Da qui I Gemelli, I Vari.

Il cancro appartiene alla storia recente.

 

 

[1] In realtà il 3 Maggio 1945 (vedi: “Diario: Dai corsi premilitari al plotone di esecuzione”)

Pubblicazione aprile 1988

Versi “biblici” in carnico

di TITO MANIACCO

 

Per una vecchia diffidenza verso lo zoruttismo, leggo poesie in friulano con molta cauta diffidenza. Più che poesia nel senso tecnico del termine, mi pare che Miro De Colle lavori icasticamente sulla grande sentenziosità biblica. Egli è un uomo semplice e per questo motivo un poeta d’inusitata e drammatica profondità. Quel suo “sentenziare”, quel dire le cose di ogni giorno, il dolore, l’ira, la speranza ne fanno una sorta di profeta su cui la vita ha inciso i suoi segni profondi.

Nessun verso di De Colle è mai banale, sia che indugi in quella bonaria icastica ironia che aleggia fra gli uomini puliti che vivono una vita vera, nelle osterie che ancora ci sono, sia in quel tremendo e tenero rapporto con la madre che scende scalza i dirupi della Carnia per fermare, muta, gli occhi sul figlio partigiano, prigioniero dei cosacchi, sia in quell’incalzare silenzioso della malattia che lo divora. E la vita sociale con tutti i suoi drammi, quelli dell’emigrazione in primo luogo (raramente ho letto cose più scarne, nere e nitide come

lo stato d’animo di quel modo d’essere friulano, o carnico, là dove, invece vi è solitamente una sorta di lamentoso piagnisteo). No, questo Giobbe montanaro, vive una condizione umana in modo virile, tragico. E la tragicità è data, per violento contrasto, anche da quell’inserimento della scenetta di genere che, in tale contesto appare piuttosto come una luce in un affresco.

Se questo ha da essere un mondo dove la lingua di un piccolo popolo può trovare posto, io credo che sia un mondo in cui De Colle ha dato un contributo di grande e morale rilievo. La poesia, che un vecchio poeta russo chiamava ironicamente “una donnetta volubile”, è tutto, fuorchè volubile; bensì una sorta di sentenzioso monumento di grande ricchezza, di cui la Carnia può certamente vantarsi, e De Colle, volgendosi indietro come usa fare, ritenersene, senza la vanteria del “poeta”, un segno su quello scabro e grigio muro che è la sua fiera e combattiva vita. Forse di poeti ce ne sono troppi, inutili copie di copie di altre copie. Ma uomini che scrivano tali poesie ce ne sono pochi. Ad essi vada il nostro grazie e il nostro affetto.

NOTA INTRODUTTIVA 

 

Ho esitato a lungo prima di prendere la penna e stendere questa nota introduttiva alle poesie di Miro De Colle. Conosco, infatti, Miro da poco tempo (mi sono imbattuta, durante uno dei giri che mi portano spesso in Carnia, ad esplorare la lingua e la letteratura di quelle parti, prima nelle poesie e, solo successivamente ho incontrato il loro Autore), ma lo so uomo schivo e, giustamente, diffidente con gli intellettuali di professione, che possiedono la facile arte del parlare e non conoscono il sapore della fatica e del lavoro manuale.

Sono rimasta colpita da quell’uomo semplice, asciutto nel corpo, scavato in viso, gli slanci trattenuti dal pudore antico di chi teme di essere frainteso.

Come l’uomo, così è semplice la poesia di Miro De Colle: poesia di immagini violente, di accostamenti talvolta sconcertanti, poesia di parole essenziali, ruvide, talvolta brutali.

La lingua è scabra, prossima al parlato, la sintassi spezzata e la narrazione, anche nei brani in prosa, prosegue a fiotti, a singhiozzi, a sussulti. Le rare assonanze e le poche rime si concentrano istintivamente nei passaggi ove la tensione del Poeta si alleggerisce e trova posto allora qualche accenno di musicalità.

Un forte impegno ideologico, politico, sociale e morale percorre la prima raccolta (Par no dismenteâ. Astu ciapât pôra mari?) del 1985, in parte confluita nel presente volume.

L’esperienza della guerra partigiana, le privazioni, ma anche la speranza, che animava quei giorni ormai mitici, sono al centro dei primi componimenti dettati dall’urgenza di raccontare, appunto, “ par no dismenteâ.”

Il secondo gruppo di componimenti, tutti inediti, fornisce lo spunto per il titolo: “ e cjalâ indevant” e offre una dimensione più matura e maggiormente compiuta della poesia di Miro De Colle. Qui, i ricordi più dolorosi sono filtrati attraverso la lente del tempo, che ne sfuma i contorni e ne stempera l’amarezza. Resta l’esperienza del passato a guidare i gesti e a dar forma ai pensieri dell’uomo, a fornirlo di una saggezza che vorrebbe comunicare agli altri, perché evitino errori troppo cari.

Questo desiderio di insegnare detta a Miro De Colle “versi di pietra” che sembrano scavati o incisi nel sasso, oserei dire versi “gnomici”, che ricordano nella loro straordinaria semplicità ed efficacia quelli dei poeti greci delle origini.

Ho definito, volutamente, “di pietra” alcune poesie, perché trovo perfetta solidarietà tra lo scrivere di Miro De Colle e la sua esperienza artistica di scultore di pietra e di legno, di forgiatore di metalli.

Mi pare, infatti, che la curiosità dimostrata da Miro De Colle per il mondo animale e vegetale e la sua poliedrica versatilità che sa far parlare pietre, radici o schegge di legno con un linguaggio umano carico di ironia, si ritrovi anche nel De Colle poeta che sperimenta, talvolta con disarmante semplicità, mezzi espressivi diversi, passando dalla incantata serenità dell’idillio (es. “Sclesâs”), alla poesia d’impegno politico, dalla sagace satira paesana all’epigramma malizioso, all’apologo più classico.

La simpatia per il mondo animale che tanta parte ha nelle espressioni artistiche del De Colle, caratterizza anche la sua poesia, che vive di presenze animali, talune inquietanti, come "La magna” talaltre evocatrici di spazi lontani (i gabbiani), tutte, comunque portatrici di un messaggio per l’uomo, che al contrario degli animali protagonisti de i “I forestîrs”, si ostina in atteggiamenti di indifferenza se non di odio per i suoi simili.

Non posso qui trascurare i due temi più cari a Miro De Colle e che costituiscono il filo che lega idealmente le poesie alle sue prose: la cruda fatica del lavoro manuale e la dolcezza della donna.

Quest’ultima, vista più come madre tenerissima, tenace, coraggiosa, resistente a privazioni e dolore, che come compagna od amante, detta al Poeta versi vibranti per una commozione virilmente trattenuta.

Un discorso a sé merita, infatti il tema del lavoro che si intreccia spesso con quello della donna. Il lavoro del contadino e del montanaro, i gesti ripetuti di una esperienza ereditata dai padri, offre all’uomo la certezza delle cose che durano nel tempo, che non si incrinano, come le ideologie, nella bufera della storia.

 

Udine, Aprile 1988

PIERA RIZZOLATI

Professore Ordinario
Facoltà di LINGUE e LETTERATURE STRANIERE - Università di Udine

PREFAZIONE [*]

 

Il nonno scalpellino a Istambul, mio padre in Prussia; io a 14 anni prima in Corsica, poi a Milano, dopo la guerra a Zurigo. I giovani d’oggi a Udine e Trieste, i meno fortunati in Africa e in Russia.

Questa era ed è la realtà dell’emigrazione che spopola la Carnia e la rende un’entità geografica alla quale è sempre più difficile attribuire una “gente”. La guerra, la resistenza ed un’ancora più difficile attività politica nel dopoguerra, apparentemente combattuta perchè ... nulla cambi! Questa la mia storia.

La pubblicazione di questo libro di poesie non vuole essere un ennesimo vuoto fatto puramente culturale, ma una testimonianza d’amore per questa terra così difficile e al tempo stesso un’occazione per non dimenticare. Un ricordare che non sia solo il rimpianto di un passato che non c’è, ma un modo per ripensare un futuro.

 

CASIMIRO DE COLLE

 

[*] Tradizionalmente la prefazione è posta all’inizio del libro. In realtà essa in ampia misura ... presuppone la conoscenza del contenuto del testo e dunque mi sembra più corretta la sistemazione qui adottata.

Foto presentazione libro

30 Aprile 1988

Presentazione del libro.

Da sinistra: Duilio Casanova, Sindaco di Ravascletto, la Dr.ssa Piera Rizzolatti, Renata Toson, Miro

Locandina di invito alla presentazione ufficiale del 2° libro

Consegna omaggio floreale da parte della Dr.ssa Rizzolatti

Pubblico intervenuto

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