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Dai corsi premilitari al plotone di esecuzione (1936 - 1945) - Ricordi di Miro

Prefazione

Dei 4 quaderni diaristici lasciati da Miro, ne pubblichiamo il primo che spazia dal 1936 al 1945. A differenza degli altri tre, in cui prevalentemente giorno per giorno sono annotati gli avvenimenti, questo è in realtà una trascrizione di ricordi della sua vita militare. Prende le mosse dai corsi premilitari costretto a seguire a Milano, fino alla cattura da parte dei Cosacchi in ritirata dalla Carnia verso il confine austriaco del Passo di Monte Croce Carnico.

Scritto probabilmente nei primi anni ’50, periodo in cui la pregressa partecipazione al movimento partigiano poteva dar adito a sospetti con le debite conseguenze (vedi ad esempio la poesia “Astu cjapât pora mari”), pensiamo che volutamente il Nostro abbia ommesso nomi e precise circostanze che avrebbero potuto identificarne i protagonisti. Ne deriva dunque un documento in parte monco e forse non così particolareggiato per definirsi storico, a differenza di tanta pubblicistica oggi disponibile e molto più precisa e circostanziata, quando ormai quei protagonisti hanno raggiunto migliori e più pacifici lidi.

Ma la pubblicazione di questi ricordi non ha tali pretese: è solo un documento dell’uomo Miro.

Molte volte un uomo ha bisogno della vita intiera per imparare una sola verità

 

Non cercate Iddio nei cieli ma guardate gli uomini sulla terra e lo troverete

Retrocopertina del diario

Brevi appunti di vita militare, partigiana e politica

Prima pagina del diario

1936. Cominciai a farmi una vaga idea delle “camorre” [1] e insane istituzioni del regime [2] frequentando i corsi premilitari obbligatori nelle scuole di Piazzale Maciachini a Milano. Ci fecero pagare 1 lira per aver rotto una lastra di vetro; eravamo una cinquantina di giovani (una lastra quindi 50 lire): costo normale 3 lire. Ci vennero a levare il borsellino di tasca a quanti non volevano pagare.

 

[1] Imbrogli

[2] Fascista

Alcune pagine del libretto personale di preparazione militare (1936 - 1939)

Miro Premilitare Milano 1936

Altra volta 1 lira per comprare le scarpe ad un premilitare che diceva di non avere scarpe da mettere per venire all’istruzione. Scarpe 50 lire: costo massimo 25-30 lire. Otto giorni di consegna a pulire moschetti nella sede del Fascio a Niguarda, con denuncia al Tribunale Militare se avessi mancato una volta a detta consegna (la sera dalle 20 alle 23), dopo stanco di 10 ore di lavoro per guadagnarmi il poco sostentamento per campare la vita. Minacciato di denuncia per non aver partecipato al corso in divisa di giovane fascista.

Milano 1936, in divisia premilitare

4-4-1939. Presentato a Sacile per essere inviato a Cividale nel Corpo Guardia alla Frontiera [3]. Tre mesi di istruzione; il terzo mese, quasi ogni giorno ai tiri di addestramento.

“Bisognava essere ben preparati perché la pace fosse sicura all’ombra delle nostre baionette”: questa la propaganda. Cominciai a conoscere come funzionavano le cose: ad esempio tutta la posta della compagnia veniva letta in fureria attraverso una potente lampadina per prendere quelle misere 5 lire che eventualmente la famiglia ci inviava.

[3] Guardia alla frontiera, (G.A.F.): corpo militare del Regio Esercito, dal 1934 alla fine della seconda guerra mondiale (1953), con il compito di difendere le frontiere dell'Italia. Essendo il Nostro dislocato a Piedicolle (vedi oltre nel testo) apparteneva dunque al IX Corpo d’Armata – Udine, XXI Settore Alto Isonzo, sottosettore 21/c

(Wikipedia:  https://it.wikipedia.org/wiki/Guardia_alla_frontiera).

Documento di idoneità al Servizio Militare.

Sacile 4 Aprile 1939

Ogni decade non si prendeva più di 2,40 – 2,50 – 3 lire: era il massimo delle 4 spettanti! Le scuse delle trattenute erano le brande rotte, lastre. Si pagò 3 volte un grande specchio che era fuori della camerata: ritiravano quello buono e lo rimpiazzavano con il rotto per poter trattenere i soldi.

Quattro mesi al campo: di nuovo quasi ogni giorno ai tiri. Mai visto i viveri di conforto che ci spettava, e nemmeno semplicemente il rancio per le truppe di alta montagna. Dopo il campo servizio sul confine slavo a Piedicolle [4] nei fortini.

Su un varco che non era nemmeno camionabile c’era la bellezza di 4 caserme con circa 700 uomini di presidio: carabinieri, finanza, milizia confinaria e guardia frontiera, che naturalmente non facevano niente, salvo gli Ufficiali di tutte queste truppe che facevano a gara nel contrabbando che poi portavano a Gorizia e Udine.

 

 

[4] Frazione nel Comune di Tolmino, ora in Slovenia

In un corso di segnalazione ottica che feci a Udine presso la caserma del Genio, che contava fra effettivi e richiamati  quasi 3000 soldati, più di una volta ci fecero la pastasciutta con l’olio di macchina per cui, man mano che si prendeva il rancio veniva gettato in grossi fusti che erano collocati in vari punti del cortile. Alla sera si poteva vedere un carro con 5 – 6 fusti di 200 litri l’uno che usciva dalla caserma. Un altro episodio che mi colpì fu quello che vidi una sera in due case di tolleranza: si poteva vedere una coda di soldati in fila dal cortile di queste case fino alle porte delle camere delle donne per cui usciva uno ed entrava l’altro. Nelle varie caserme si contava una percentuale del 30% di ammalati con malattie veneree.

Qualche mese prima della dichiarazione di guerra alla Iugoslavia [5] si poteva vedere la frontiera slava che pullulava di truppe, mentre alla dichiarazione delle ostilità la frontiera era sguarnita, tanto che gli slavi erano arrivati a Tolmino tagliando così la ritirata di tutte le forze che restavano da qui fino a Piedicolle [6].

Miro Cividale GAF 1939

[5] La guerra alla Jugoslavia fu dichiarata il 6 Aprile 1941

 

[6] Da altri appunti partecipò alle operazioni di guerra alla frontiera Italo-Iugoslava dal 06-04-1941 al 18-04-1941 con il XXI settore G.A.F.

A Cividale, inquadrato nella G.A.F.

Nel deposito settoriale di Cividale, dove rimasi per 1 anno e mezzo, potei farmi un concetto di quella che poteva essere la truffa colossale che si perpetrava nei vari magazzini dell’esercito a scapito della truppa. La “camorra” era quasi palese sia in fureria, cucina, e via via nei vari uffici e magazzini: ci vorrebbero parecchie pagine per illustrare tutto. Basta citare che si arrivava persino ad uscire con un camion con 4-5 militari e portarli in piccoli paesi di montagna a rubare legna da ardere per il tal o talaltro capitano o ufficiale; i militari andavano per avere in compenso un permesso di 24 o 48 ore, e così per procurare granoturco per ingrassare il maiale di qualche ufficiale che aveva la famiglia costì. Mentre la truppa veniva punita perché aveva la divisa senza un bottone oppure sporca dopo magari 6 – 7 mesi che non veniva cambiata.

Nel gennaio 1942, trovandomi in partenza per l’Albania, eravamo 2 Btg. a Udine [7] in baracche dove ci fecero sostare per quasi un mese con 3 coperte da campo e un pagliericcio posti sopra un castello con 26 – 27 gradi di freddo, e fra una tavola a l’altra della baracca passavano le dita di una mano.

In quest’attesa mi recai un giorno all’Ospedale Militare avendo un dito del piede sinistro tutto gonfio e non potendo camminare. Il Colonnello Medico, dopo aver guardato e disinfettato, mi fece legare sul tavolo operatorio e, preso un bisturi e le pinze, mi strappò l’unghia, così a sangue freddo, senza iniezione. Fasciato il dito, mi fece un biglietto con 4 giorni di riposo al corpo.

 

 

[7] Dal Foglio Matricolare il 20 Dicembre 1941 fu aggregato al Dep.to 2: Regg.to Fanteria “Re” a Udine.

 

Udine, 1941

Arrivato a Tirana [8], dopo due ore sotto la tenda ero carico di pidocchi. Dislocato sul confine Bulgaro presso Kicevo su una montagna a 1800 metri, in un villaggio di 20 – 25 case: presidio di 20 soldati, un ufficiale sottotenente, un sergente, più 10 finanzieri. Armamento 4 mitragliatrici più armi individuali normali; il più prossimo distaccamento o presidio era a 3 ore di strada, la compagnia (il comando) a 3 e mezzo, il Btg. a 4 ore.

 

 

[8] Imbarcato a Bari il 13 Marzo 1942 ed arrivato a Durazzo il 14 Marzo (da Foglio Matricolare).

Mi resi subito conto che il più piccolo attacco partigiano poteva massacrarci, essendo senza collegamenti e con tanta strada prima che giungessero rinforzi. Si mangiava poco e male: per riempirci un po’ la pancia si andava per i prati a raccogliere erbe per cuocerle e poi mangiarle.

Uscito una sera di pattuglia assieme ad altri due compagni catturammo due partigiani armati; consegnati al tenente questi ci ordinò di portarli al comando di Btg. e quindi al Tribunale Militare di Tirana distante 400 Km. Dopo averli consegnati facemmo ritorno; dati i pochi mezzi di fortuna il viaggio di ritorno durò 7 – 8 giorni. Quando attraversammo il villaggio per recarci al distaccamento (cosa incredibile) i due partigiani erano tornati a casa prima di noi.

Non riuscii a credere ai miei occhi. L’indomani mandai a chiamare un ragazzo del paese che al tempo dell’occupazione aveva imparato un po’ l’italiano. Gli chiesi se avesse saputo del fatto, e se i due partigiani fossero scappati, oppure rilasciati dal Tribunale. In principio non voleva dirmi niente, poi gli diedi un temperino di madreperla e riuscii a sapere che i due in oggetto erano stati rilasciati dal Tribunale l’indomani della nostra consegna; in più venne pagato loro il viaggio di ritorno a casa da parte del Tribunale.

Albania, 1942

In quei giorni pensai assiduamente al pericolo cui ero esposto; non soltanto per il caso successo, ma anche perché, come si diceva, (sotto la naia “radio scarpa”) quasi giornalmente succedevano fatti simili a quelli esposti.

Essere preso in una trappola per la viltà di altri mi dispiaceva enormemente; cominciai perciò a studiare il mezzo di rientrare in Italia. Una parola! Gran parte delle truppe colà dislocate, come minimo era 1 anno che si trovavano lì, altre 2 o 3, senza alcuna probabilità di rimpatrio (io ero 2 – 3 mesi). Feci la domanda di andare ai corsi paracadutisti: nessun risultato. Ne feci una seconda, niente ancora. Le domande si potevano presentare in carta libera. Al nostro comando però dovevano essere corredate con 7 lire di francobollo. Stanco di aspettare, e mentre tutti i compagni mi dicevano che quasi tutti l’avevano presentata per 2 – 3 volte senza risultati per nessuno, compreso il capitano comandante della compagnia, mi recai un giorno al comandi di Btg. e cercai di un sergente che si trovava nell’ufficio maggiorità come dattilografo. Gli chiesi seccamente quale fine facevano dette domande; senza farsi attendere, si mostrò seccato, poi dandogli in mano 30 lire mi disse che il Maggiore, aiutante del Colonnello, dopo aver levato i francobolli le bruciava.

Il giorno stesso con uno stratagemma aggirai la censura: scrissi una lettera al Ministero dell’Aeronautica a Roma in dialetto; inviai la lettera ad una conoscente che si trovava colà, chiedendole di tradurla in italiano e poi di inoltrarla. Risposta affermativa in 8 giorni [9]. Antepongo un appunto appreso da un amico, il quale aveva un fratello nell’8° alpini Btg. Gemona. Costui era partito per il Montenegro giorni prima di noi come rinforzo a quella truppa colà dislocata. Ecco quanto scriveva questo alpino a suo fratello: “Qui  ci hanno dato carta bianca; la guerriglia con i partigiani è molto dura. Nei paesi che si può occupare, e quindi presidiare, viene distrutto tutto, incendiato, ammazzato quanta gente ci si trova.” Dopo due mesi vennero di nuovo ritirati questi alpini e quindi rimpatriati. Trovarono la morte più di metà nel viaggio di ritorno, a qualche chilometro prima di sbarcare a Bari per l’affondamento di 2 navi del convoglio da parte di sommergibili Inglesi.

 

[9] Imbarcato a Durazzo per Bari il 13-09-1942

 

In circa 9 mesi di permanenza in Italia tra corsi serali e addestramento si creò la Divisione Nembo Paracadutisti [10]. Il primo saggio venne dato l’ultima notte dell’anno 1942-1943 a Pistoia dove si risiedeva [11].

Sbarcata la Divisione in Sardegna ai primi di giugno del ‘43 [12] venne dislocata nelle peggiori zone malariche dell’Isola; dopo aver speso fior di milioni per allestire questa Divisione (la prima dell’Esercito per potenza ed armamento) la mandarono a combattere contro le zanzare. Dopo due mesi di permanenza colà il mio Btg. aveva il 40% di malarici. Dislocati lontani da ogni centro abitato, con un rancio che era immangiabile anche per chi fosse senza mangiare da una settimana, senza una sigaretta in due mesi, con 45 gradi di temperatura e senza acqua da bere.

[10] La 184ª Divisione paracadutisti "Nembo" fu ufficialmente costituita il 1º novembre 1942, a partire dal 185º Reggimento paracadutisti (già della 185ª Divisione paracadutisti "Folgore") e da altri reggimenti provenienti dalle Scuole di Paracadutismo di Tarquinia e Viterbo. A seguito dell'armistizio (8 settembre 1943) la Divisione "Nembo" rimase in larga parte fedele al giuramento al Re, attenendosi alle direttive impartite dal Governo italiano. Tra le unità schierate in Sardegna scelsero di unirsi all'ex alleato tedesco e poi alla R.S.I. il XII Battaglione (maggiore Rizzatti) ed elementi del X Battaglione, che seguirono la 90a Panzergrenadier-Division tedesca prima in Corsica e poi sul continente

(Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/184%C2%AA_Divisione_paracadutisti_%22Nembo%22).

 

[11] Con soggiorno tuttavia anche a Tarquinia e Lucca (come da foto)

 

[12] Dal Foglio Matricolare risulta imbarco a La Spezia il 21-03-1943 e sbarco a La Maddalena il giorno dopo

Pistoia, 1942
Squadra di lancio, Tarquinia, 1942
2° Plotone – 36°a Compagnia Paracadutisti, Lucca 1942
A sinistra in divisa da lancio

Un bel giorno mancò di sorpresa il capitano Alvino [13] comandante la 34a compagnia 12° Btg.; per qualche giorno non si seppe niente; poi ad un tratto la notizia che era condannato ad un mese di fortezza. Il perché non si sapeva, ma eravamo a pochi giorni dall’8 settembre.

 

[13] Capitano Corrado Alvino (deceduto a Napoli nel 1993): dopo l’8 settembre fu coinvolto nella tragica morte del Tenente Colonnello Alberto Bechi Luserna, Capo di Stato Maggiore della Divisione Nembo. Questi, seguendo le direttive di Badoglio cercò di richiamare agli ordini alcune forze paracadutiste che intendevano continuare la guerra a fianco dei Tedeschi. La sera del 10 Settembre, ad un posto di blocco di paracadutisti presso Borore (Prov. NU), dopo un’animata discussione con l’Alvino, il Bechi Luserna rimase ucciso da una scarica di mitra. Il Capitano Alvino dopo aver combattuto sul fronte di Nettuno con i 300 paracadutisti rimasti fedeli, fu processato e condannato, all’età di 32 anni, a lunga detenzione.

Nella Foto: Ardea, Marzo 1944: il Capitano Alvino presenta i superstiti del "Nembo". Da:

http://bascogrigioverde.blogspot.it/2007/09/9-seettembre-1943-morte-di-aberto-bechi.html

Debbo fare un passo indietro a questo punto. Il 25 luglio, caduta del fascismo, verso le ore 23 mentre tutto il Btg. dormiva, ad un tratto suona l’allarme; in poco tempo le compagnie sono pronte, armate di tutto punto. Si sente giù nei paesi vicini tutta una sparatoria, non si sa cosa sia. Ordine di difendere l’accampamento; intanto erano state inviate due pattuglie in esplorazione. Tenenti, Capitani, Maggiori, sbigottiti senza sapere quello che succedeva. Dopo due ore la novità. Qualche episodio di valutazione tra soldati e anche sottoufficiali cioè fra monarchici e fascisti.

26 luglio: adunata presto con predica del Capitano: “Ora c’è una dittatura militare; al comando si restringono le redini, basta con la camorra ecc. ecc.”.

 

L’8 settembre [14] le truppe lasciano di nuovo l’accampamento per la libera uscita alle 6 la sera. Al giornale radio delle 8 si intese: “L’Italia nell’impossibilità di continuare la guerra ha chiesto l’armistizio”. Non si sentì più niente. Tutti rientrarono al campo; alle 9 il Maggiore, radunato il Btg., ci disse: “Da questo momento non avete più comando, non avete più nessun superiore, siete liberi di fare ciò che volete”. La truppa lasciata in balia di se stessa cominciò a radunarsi: 5 – 6 da una parte, 4 – 5 da un’altra a discutere su cosa fare. Dove scappare? Cosa fare? Dove prendere il cibo? Come curarsi delle malattie? Nessuno pensava di farsi prendere prigioniero da parte delle truppe Inglesi che sarebbero sbarcate. Tanto era l’odio che ci avevano infuso contro di loro. Per tutta la notte si assistette impazienti a qualche novità senza saper decidere niente. Il 9, la mattina presto, venne il Maggiore ed il Capitano Alvino che era stato liberato dalla fortezza, radunarono il Btg. e poi il Maggiore ci tenne questo discorso:

“Dopo un colloquio avuto con il Comando Tedesco e la nostra Divisione è stato deciso che tutti quelli che vorranno seguitare a combattere a fianco delle truppe tedesche saranno trasportati in Italia per la difesa della Penisola; gli altri possono andare dove meglio credono. Io sono sicuro che  il mio Btg. partirà tutto con me e da questo momento proclamo lo stato di emergenza”.

[14] L’8 settembre 1943 la Nembo si trovava accampata a Campidano ad una quarantina di chilometri da Cagliari, l’armistizio fu accolto negativamente da alcuni comandanti di reparto.

A parte i sentimenti nazisti di questo Maggiore (già Ufficiale nell’altra guerra con l’esercito tedesco [15] e poi scappato ed entrato volontario in quello italiano), Rizzatti [16], così si chiamava, in 12 mesi di comando al suo Btg. era considerato dalla truppa il miglior Ufficiale; si era fatto tanto amare che il suo Btg. andava nel fuoco per lui, e così non esitò istantaneamente ad acconsentire. Parlò poi il Capitano Alvino.

 Da questo momento comincia l’atto vandalico della distruzione del campo; in 2 ore tutto è distrutto, tutto bruciato: spaccio, infermeria, cucina , magazzino, ecc. ecc. Corre voce che in Italia, cioè nella penisola, c’è la ribellione: un tenente leva dal portafoglio 7- 8 biglietti da mille e li getta nel fuoco (“Tanto non valgono più”, disse). In dieci minuti tutti quanti presero quello che avevano nel portafoglio e lo distruggevano; per ultimo rimase la fanfara (strumenti nuovi fiammanti vennero completamente distrutti).

Ritorno del Maggiore e di nuovo adunata. La Divisione, ci disse, ha deciso di partire al completo sotto la protezione delle truppe tedesche per il rientro in Italia, si parte subito. Saliti sui camion e portati sulla strada  maestra, veniamo subito incolonnati fra i camion tedeschi; si seppe poi per la strada che c’era soltanto il 12° Btg avendo ricevuto la Divisione ordine di rimanere sul posto. Durante la ritirata delle truppe tedesche che si protraeva in una interminabile colonna lungo tutto il litorale dell’isola, veniva lasciato il vuoto dietro alla colonna: distrutto i ponti, la strada e tutto quello che si poteva distruggere.

Dalla Sardegna si traghettò a San Bonifacio [17] e si passò in Corsica; ci portarono nella caserma della 55a Legione della Milizia, ove c’era ancora qualche ufficiale e qualche milite. Si seppe che anche costì la truppa era mal trattata con poco vitto e senza fumare. Per tutto il giorno i Tedeschi si diedero da fare a distruggere navi, sommergibili, tutto quello che c’era nella caserma, e per ultimo il porto.

Qui con una bottiglia di acqua minerale guasta (o avvelenata) che bevetti, diventai in 10 minuti tutto nero e credevo proprio di fare la fine (non vedevo, non sentivo, non ero capace di stare in piedi); un amico andò in cerca di un dottore fino a quando trovò quello della Legione (Capitano), ora dentista a Tolmezzo. Dopo avermi spogliato, vicino ad una fontana cominciò a gettarmi addosso secchi d’acqua uno dietro l’altro, e poi con due pastiglie e un po’ di respirazione artificiale, mi rimise di nuovo un po’ in forza, e cominciai di nuovo a riprendere colore.

 

[15] La 1a guerra mondiale con l’esercito austriaco

 

[16]

Mario Rizzatti, paracadutista (Fiumicello-UD 1892 - Castel Decima 1944), MOVM (Medaglia d’Oro al Valor Militare), comandante del 1° Btg. ARDITI PARACADUTISTI della R.S.I.

L’8 settembre 1943 il Maggiore Rizzatti, al comando del 12° Battaglione Paracadutisti della Divisione “Nembo” dislocato in Sardegna rifiuta, con i suoi uomini, di ottemperare alle richieste di Badoglio. Trova la morte nel combattimento per la difesa di Roma il 4 Giugno 1944, presso Fosso Malpazzo di Castel Decima al comando del 1° Battaglione Arditi Paracadutisti “Folgore”. Il suo corpo non verrà mai ritrovato.

Fonte: http://www.albertoparducci.it/photo_gallery/Paracadutisti.htm

Foto: http://digilander.libero.it/historiabis/paraita6.htm

I giudizi espressi da Miro nei confronti del Maggiore Rizzatti trovano conferma nella biografia, concisa, ma esauriente, in:

http://www.atuttadestra.net/index.php/archives/198280 

 

[17] Dopo essersi imbarcati a S.Teresa di Gallura

Durante la ritirata dalla Corsica, cui si aggiungevano man mano truppe tedesche costì dislocate, la colonna venne attaccata  dai partigiani assieme a dei soldati italiani. Cosa mal fatta in quanto erano in pochi di fronte ad una enorme colonna armata di tutto punto e comprendente una Divisione corazzata. Risultato 10 - 12 morti da parte dei partigiani ed un paese distrutto. Man mano che la colonna arrivava a qualche chilometro da Bastia (porto di mare) veniva imbarcata su apparecchi junckers in un campo di fortuna; si poteva vedere  una fila di apparecchi che andava e una che tornava come una catena; ciò che non potevano caricare veniva distrutto. Intanto gli apparecchi inglesi e americani bombardavano il porto e la città continuamente. Sbarco a Pisa e Livorno.

Quando venne il nostro turno si sbarcò a Pisa [18]; eravamo circa 400 uomini. Dopo un paio di giorni si rimase in 250; quelli che erano più vicini alle proprie case erano tutti partiti. A questo punto i tedeschi convocarono i rimanenti e dopo averci preso armi e bagagli, ci impiegarono a pulire le varie caserme dove contavano di installarsi. Infine ci portarono a Spoleto e ci tennero rinchiusi per 15 giorni; qualcuno scappava sempre, tanto che eravamo rimasti in 200. Dopo qualche giorno cominciarono ad affluire dei giovani che si dicevano volontari della Repubblichetta di Salò. A questo punto i tedeschi tentarono di toglierci la divisa e darci le loro. In questo frangente forse questi 200 uomini capirono che non erano altro che carne da macello, da adoperarsi come meglio aggradava loro. Un gesto spontaneo sorse in tutti con compattezza altera: ci rifiutammo di indossarla: fate quello che volete. Qualcuno venne portato in prigione mentre gli altri, dopo 2 – 3 giorni, caricati assieme alle reclute su un camion e fatti partire. Per tutta la notte si cercò invano di indovinare la direzione.

Verso le 4 del mattino ci fecero scendere dai camion; eravamo in un bosco. I tedeschi che ci accompagnavano ci misero uno dietro l’altro e ci incamminarono per la strada: i camion girarono e ripartirono. Dopo qualche minuto si sentirono i colpi di partenza del cannone, ci buttammo a terra; arrivarono poco distanti, e da allora uno dietro l’altro per circa mezz’ora. Quando cominciava a far giorno eravamo in un piccolo paese (Ardea) presso Nettuno dove era avvenuto lo sbarco. Tutto intorno era distrutto, il paese raso al suolo, una infinità di carogne di animali in ogni dove, il terreno tutto una buca per le bombe (a perdita d’occhio). Costì ci divisero per squadre di 20 uomini, ci diedero un moschetto e 2 caricatori e poi una squadra da una parte e un’altra dall’altra ci fecero raggiungere la prima linea.

Durante il cammino (per circa due ore) ovunque morte e distruzione; ormai i colpi di cannone non davano più noia, tanto cadevano fitti ovunque che era inutile cercare riparo. Non si sentiva che un colpo dietro l’altro, ed ogni tanto, più vicino, il fischio delle scariche di mitragliatrice, di bombe a mano, ed il peggio, dei bombardamenti dell’aviazione.

Da due giorni eravamo senza mangiare; verso la sera del secondo giorno arrivando in linea ci mischiarono assieme ai tedeschi, che significava montare di sentinella assieme ad un tedesco, portare la cassa delle munizioni per mitragliatrice mentre un tedesco portava l’arma. La notte abbastanza calma. Sul far del giorno si cominciò a sentire i cingoli ed i motori dei carri armati nemici in movimento. Dopo circa 10 minuti una pioggia di colpi, non si distingueva più niente, solo un assordante rumore, da non sentire nemmeno a parlarsi uno con l’altro. Ad un tratto cominciarono le batterie tedesche a sparare, poi tutta la prima linea con tutte le armi, poi uno stormo di apparecchi, prima i caccia che discendevano a mitragliare, poi i bombardieri, infine tutta la contraerea tedesca e per finire si alzarono i caccia tedeschi impegnando un duello aereo. Non voglio qui fare dell’apologia nazista, ma dovrei rimarcare che 15 – 16 apparecchi tedeschi misero in fuga circa altrettanti inglesi più una quindicina di bombardieri.

Per tutto il giorno fu un inferno: si attendeva la morte minuto per minuto; quando cominciò a far notte ritornarono gli apparecchi inglesi e lasciarono cadere una infinità di bengala tanto che sembrava sempre giorno e la battaglia continuò. L’indomani ci ritirarono dal fronte e ci riportarono di nuovo ad Ardea: di circa 380 uomini dopo tre giorni eravamo rimasti 180. Qui ci dissero che attendevano nuovi soldati da parte della Repubblica di Salò per formare due Btg. al comando di ufficiali italiani per riprendere poi il fronte. In quella sera assieme ad un altro decisi di scappare, anche se ci avevano fatto firmare un foglio in cui è scritto che non ci si poteva allontanare di 300 metri da dove era fissata la sosta o il pernottamento, pena la fucilazione.

Nel pomeriggio dello stesso giorno ci portarono sulla strada da dove affluivano i rifornimenti per la prima linea. Il primo camion tedesco che passò lo fermammo, c’era solo l’autista, gli chiedemmo se va verso Roma, ci rispose con la testa affermativamente; senza dire altro salimmo, né lui ci chiese niente. A San Paolo, periferia di Roma, si fermò e noi scendemmo. Raggiunsi con il tram una mia cugina verso il centro della città che fortunatamente trovai in casa. Ella ci diede le informazioni necessarie per raggiungere Piazza Nomentana da dove c’erano camions sempre in partenza con della gente che sfollava. Alle nove di sera eravamo su un grande camion che partiva per Firenze. Prima di arrivare il camion ebbe un guasto meccanico; si proseguì a piedi con la speranza di trovarne un altro. Dopo due ore fummo raggiunti da un camion tedesco guidato da un sergente che senza tante storie ci fece salire: ci portarono a Perugia da dove riuscimmo a scappare. Raggiunta Firenze proseguimmo con il treno fino a Venezia; qui fummo presi di nuovo dalla ronda della X Mas. Dato che eravamo in divisa fu gioco facile far valere la nostra superiorità e proseguire con il primo diretto per Udine e poi sino a casa [19].

[18] Da Foglio Matricolare rientro nel Continente via aerea con sbarco a Pisa il 9 Settembre1943

 

[19] Arrivo in paese il 27 Febbraio 1944

Rimasi nascosto per un periodo di tempo dal momento che di tanto in tanto c’era la visita dei Repubblichini o dei Tedeschi. Ero sprovvisto di documenti di riconoscimento. Dopo qualche giorno seppi che i carabinieri erano stati a prendere un paracadutista della Divisione Folgore [20] che si trovava a casa in convalescenza. Tornò dopo un mese circa, dopo aver raggiunto Spoleto centro di reclutamento. Mi disse di tenermi nascosto perché ero ricercato.

Ai primi di giugno del 1944 [21] assunsi l’incarico dal comandante di compagnia Da Pozzo Giobatta (Folgore), che già militava nel Btg. Monte Canin Div. Osoppo-Friuli, con il compito di lavorare sul terreno come informatore e reclutamento [22].

In quei giorni partì mio fratello [23] con una Comp. di garibaldini. Dopo qualche giorno venne formata nel Comune una guardia armata. Dopo le votazioni per la formazione del C.L.N. venne votato per eleggere il Comandante della Guardia: venni scelto con una buona maggioranza di voti su altri 3 candidati. Da allora assunsi la responsabilità della vigilanza del Comune da eventuali rastrellamenti e per la protezione dei cittadini. Furono costituiti dei posti di blocco con parola d’ordine e controllo dei documenti. Una sera venne una pattuglia di garibaldini da un paese limitrofo e mi informarono che avevano il compito di eliminare il Segretario politico dell’ex Partito Fascista che risiedeva nel paese. Sapevo che questa persona pur non avendo commesso dei crimini aveva fatto abbastanza male nel Comune, se non altro per aver vissuto di rapina e parassita alle spalle della popolazione, ridotta allo stremo delle forze e nella più profonda miseria. Però sapevo anche che dopo il crollo del fascismo e specie con la formazione dei primi reparti partigiani, costui tremava dalla paura, non si faceva più vedere, era ridotto assieme a tutta la famiglia come uno straccio, e anche lui nella squallida miseria. Dopo un breve esame della situazione mi parve che costui avesse già abbastanza per farlo cambiare idea, o per lo meno di non impicciarsi più né di politica né in cariche di qualsiasi specie, e decisi che fosse risparmiato. Rinviai la pattuglia dicendo che sarei passato io dal comando e messa a posto la questione: come del resto feci.

[20] Con molta probabilità è il Da Pozzo Giobatta nominato poche righe sotto

 

[22] In Foglio Matricolare si riporta che dall’11-06-1944 all’8-05-1945 ha fatto parte della formazione partigiana 5a Divisione Osoppo-Friuli in territorio Metropolitano con la qualifica dal 15-09-1944 all’8-05-1945 di Aiutante Maggiore Btg. Partigiani (equivalente a G.: Tenente). Come nome di battaglia “Nembo” con chiaro riferimento alla Divisione Paracadutisti cui aveva appartenuto.

 

[22] Da altri appunti è specificato dai primi di Agosto al 27 Settembre 1944

 

[23]

De Colle Anastasio (1924-1969): militare sul fronte slavo, fu ferito nell’agosto del 1943 alla spalla e torace. L’8 Settembre, ricoverato in ospedale, riesce a sottrarsi alle forze nazifasciste aggregandosi quindi nelle file partigiane della Divisione Garibaldi-Friuli - Brigata Val But. Con il nome di battaglia di Moro è inquadrato nel Btg. Mansueto Nassivera Leone comandato da Elio Martinis – Furore. Nei primi mesi del ’45 passa alla Divisione Osoppo-Friuli con il nome di battaglia Pici - Btg. Monte Canin, in cui fu di nuovo ferito ad una spalla. Nella foto in divisa da partigiano garibaldino.

Per raggiungere il Btg. Monte Canin nella zona di Tramonti partii con 9 uomini [24]: il Btg. era, si può dire, ancora in formazione, non contava più di 40 uomini, perciò con il nostro arrivo potei formare piccole compagnie. Nel giro di un mese compii 3 atti di sabotaggio sulla linea ferroviaria Udine – Venezia e della parallela linea di alta tensione elettrica. Una compagnia era dislocata in pianura per il vettovagliamento. Il Btg. riceveva ordini dal Comando Divisione Osoppo e dalla Missione Inglese costì dislocati. La Missione era composta da 2 Maggiori e 4 Capitani. Si lavorò qualche giorno per allestire un campo di partenza aereo che venne collaudato da parte di un caccia inglese atterrando e ripartendo. In seguito vennero effettuati dei lanci di materiale, armamenti, vestiario e vettovagliamento sempre nel campo, tanto che ognuno era armato di Sten [25]; con di più avevamo nel Btg. 4 mitragliatrici Bren [26] e un lancia bombe.

Ai primi di ottobre con una compagnia ci recammo a Forni di Sotto, sulla strada che da Sappada va in Austria; costì si lavorò 2 giorni per far saltare circa 600 metri di galleria denominata il Passo della Morte. Allo scoppio tutto crollò sotto la potenza di circa 30 quintali di esplosivo. Due giorni dopo tutto il Btg. era portato ai piedi del monte Rest con il compito di fermare il rastrellamento che, dopo aver occupato tutta la zona carnica e posto di presidio le truppe Cosacche, si dirigeva verso Tramonti, ultimo obiettivo [27].

 

[24] Il 27 Settembre 1944

 

[25] Sten: mitra a canna corta di fabbricazione inglese

[26] Bren: mitragliatrice leggera sempre di fabbricazione inglese

[27] Il rastrellamento ad opera di cosacchi e tedeschi fu motivato dal tentativo di pochi giorni prima, peraltro fallito, dei partigiani Val Meduna e Monte Canin di catturare un gruppo di cosacchi che bivaccavano nei pressi del ponte sul Tagliamento.

Non si attese troppo: arrivati la sera, il mattino seguente, all’alba, già veniva segnalato l’avvicinamento del nemico; ci disponemmo con 4 Bren e circa 40 uomini per battere il ponte (che era stato minato in precedenza), metà su una riva del fiume [28] e metà sull’altra, più altri sulla strada che portava al passo del Rest; c’erano circa 20 uomini del Btg. Val da Ros [29]. Verso le 9 spuntarono all’imbocco del ponte le pattuglie tedesche e repubblichine, seguite poi da circa 400 uomini fra tedeschi e cosacchi. Si tenne il ponte per circa un’ora; poi si dovette portarsi sul versante della montagna, ove saliva la strada, con 20 uomini ad un fianco della strada e 20 all’altro. Dopo esserci messi al riparo nel bosco tenemmo queste truppe fino alla sera, sotto una fitta pioggia e senza mangiare.

Purtroppo la sera, provati dalla fatica e dalle preponderanti forze, ci ritirammo sul passo del Rest. Già si era piazzato i Bren e date le consegne agli uomini per l’attacco che doveva svolgersi all’indomani (come si pensava) quando i tedeschi fossero apparsi al varco. Era stato provveduto a far giungere da Tramonti con un carro qualche capo di vestiario e della carne e brodo per rifocillarci. Man mano che venivano distribuite le razioni, gli uomini prendevano posizione e contatti con il comandante di Btg. (nome di battaglia Pecio [30]) che era alla testa di una ventina di uomini del Btg. Val da Ros venuto di rinforzo. Il comandante del Btg. Monte Canin [31], cioè il nostro, dalla mattina non si era più visto e si presagiva gli fosse accaduto qualcosa.

Nello spiazzo del passo era stato acceso un bel fuoco; in una baita i due cavalli con il carro, attaccati in parte. L’accesso che portava al varco mediante un sentiero era già sorvegliato da 4 uomini con un Bren. La strada doveva essere battuta da 2 Bren con la rimanenza degli uomini liberi da compiti speciali; per questo non si aveva premura dato che erano le 21 circa e non ci si aspettava l’attacco fino al mattino all’alba; inoltre anche una nebbia fitta da non vedere a 2 metri di distanza avvolgeva tutto il passo. Appena consumato quel po’ di cibo mi venne dato il compito di portarmi con 5 uomini sull’ultima curva della strada che immette sullo spiano del passo, con la consegna di montare la guardia per segnalare la comparsa del nemico. Per portarmi al posto indicato non seguii la strada che faceva un semicerchio, ma passai per il sentiero.

[28] Il fiume Tagliamento

 

[29] Il Btg. Val da Ros con il Btg. Val Meduna, Patria, e temporaneamente il Btg. Monte Canin, Tagliamento e Fedeltà, facevano capo alla 4a Brigata Osoppo (Vuga F.: “La zona libera di Carnia e l’occupazione cosacca”.  Del Bianco, Udine 1961)

 

[30] Giuseppe Zambon “Pecio”, (n. 13-04-1916 + 17-10-1944), di Cavasso Nuovo (UD), studente in legge all’Università Ca’ Foscari di Venezia, decorato alla memoria di Medaglia d’Argento al V.M. Commissario politico del reparto Val Meduna.      

Fonti: Patria Indipendente, 24 Luglio 2011 in http://anpi.it/media/uploads/patria/2011/B_INSERTO_Friuli_p_III-VIII.pdf

Gervasutti S.: “La stagione della Osoppo”, La Nuova base, 1981

Le fonti bibliografiche collocano dunque il Zambon come commissario politico del Btg. Val Meduna, il cui comandante, Luciano Pradolin “Goffredo”, fu fucilato a Udine l’11 febbraio 1945. Miro, ripetutamente, lo individua come comandante del Btg.Val da Ros. Non troviamo spiegazione di questa incongruenza: è possibile che la memoria del Nostro inganni o che, nella situazione concitata del momento, non vi sia stato tempo e modo di verificare la provenienza dei diversi uomini rispetto ai diversi battaglioni che, come rilevato in nota (29), temporaneamente si aggregavano o sganciavano in relazione alle necessità.

 

[31] Fabbro Rinaldo (Otto), nato a Tricesimo nel 1922, emigrato in Australia a Sidney.

Riproduzione delle postazioni sul passo Rest

Arrivato sul posto, dopo una ricognizione nei dintorni senza naturalmente trovare né sentire niente, ci sistemammo sotto un abete con la sentinella nascosta dietro un cespuglio che poteva dominare un tratto di strada sottostante.

Una cinquantina di tedeschi era però già passata prima del nostro arrivo ed aveva avuto il tempo di sistemarsi per prendere sotto tiro con i suoi mitragliatori tutto lo spiazzo (sono stati dei coraggiosi e dei bravi – bisogna riconoscerlo). Va bene che la forte nebbia li aveva protetti ed aiutati; ed ha aiutato anche noi impedendo che le loro mitragliatrici colpissero nel segno; comunque il comandante Pecio del Val da Ros cadde colpito.

Non erano trascorsi 5 minuti dalla nostra sistemazione che udimmo una lunga scarica di mitraglia: restammo sbigottiti perché avevamo avuto l’ordine di non sparare fino all’arrivo dei tedeschi per coglierli di sorpresa e sparare su loro con tutte le armi. Uno disse che a qualcuno era scappata una scarica di Bren posto all’imbocco del sentiero dopo aver visto forse qualcuno salire. Io non parlavo; avevo inteso bene la scarica di due mitragliatrici e capito dal loro crepitio che non erano i nostri Bren (non mi rendevo però conto come mai potessero essere già lì). Presi 2 uomini con me e andai a vedere quello che succedeva. Avvicinandomi al sentiero dove avevamo il Bren non trovai nessuno. Palpai per terra se trovavo dei bossoli vuoti: niente. Cercai di portarmi il più possibile vicino alla strada; non si vedeva niente, c’era un silenzio di tomba. Tesi l’orecchio e sentii (come del resto anche gli altri) a chiamare “mamma” e lamentarsi. Tornammo a prendere gli altri 3 uomini e ci avvicinammo alla strada: potemmo scorgere di tanto in tanto qualche scintilla di fuoco acceso, quando lo ravvivava l’aria. Udimmo lo scalpitio dei cavalli e risentimmo ancora il lamento, giù vicino al fuoco, ma non si poteva credere ancora che i tedeschi fossero lì o fossero già passati. Uno del gruppo disse che voleva andare giù nella strada a vedere; lo sconsigliai, ma lui duro partì. Non era ancora sul ciglio che sentii muovere qualcosa: credendo di fare una bravura diede il “chi va là”: un razzo squarciò la nebbia ed una scarica di mitra fu la risposta; non lo presero e si vide qualche pallottola ravvivare il fuoco e cioè a lato di noi. Ormai non c’erano più dubbi; ci allontanammo un po’ ed aspettammo quello che poteva succedere. Dopo circa 10 minuti sentimmo il comando di andare avanti. Si sentivano i passi dei soldati, ma non si poteva vedere niente; ci si poteva anche scontrarci naso naso, tutto in un momento. Dopo che quei passi si allontanarono non si sentiva più il lamento (sapemmo dopo che quei disgraziati lo avevano finito a calci nella testa).

L’indomani [32] all’alba attraversammo la strada e salimmo il versante boscoso della montagna, in tempo per portarci fuori vista dal grosso delle compagnie cosacche a cavallo che salivano per la strada. Dove avevamo la sera precedente lasciato gli zaini, vicino ad una baita, non trovammo nessuno; ciò ci fece prevedere che tutti gli uomini erano ripiegati su Tramonti cioè dove era rimasto qualche uomo che aveva in custodia un po’ di materiale e qualche genere alimentare. Non  pensammo nemmeno di ripiegare verso il paese, ma di portarci, dopo essersi asciugati, verso il  luogo di partenza, cioè sul ponte di Caprizi dove avevamo lasciato un po’di pasta, pane e lardo.

Verso le 4 del pomeriggio si percorreva un sentiero nelle immediate vicinanze della segheria dove avevamo pernottato la sera prima e dove era nascosta la roba. Io ero davanti con lo Sten pronto a sparare, i due compagni mi seguivano. Mancavano pochi metri dalla strada dove si trovava il ponte e quindi la segheria. Ad un tratto sento l’alto là, non potei però vedere niente né da dove proveniva, data la sorpresa. Fu un attimo che poteva, al minimo rumore, provocare una scarica da ambo le parti. Fortuna che chi aveva dato l’alt fu facile vedermi; era il comandante di Btg. [33] che dopo aver passato la notte ed anche il giorno del combattimento in uno stavolo lontano dal pericolo si era portato a cercare del cibo.

 

 

 

[32] 18 Ottobre 1944

 

[33] Otto (Fabbro Rinaldo)

 

Fabbro Rinaldo (Otto) Comandante del Btg. Monte Canin. Foto con dedica: “Ai partigiani del M. Canin di Zovello – di ricordo - Otto 30-12-45”

Fabbro Rinaldo (Otto). Sul retro la dedica: “Ai partigiani di Ravascletto-Zovello – Otto – 30-12-45”

Dopo essersi ricongiunti, o meglio, dopo aver potuto di nuovo unire il Btg. apprendemmo della morte del compagno Folgore di Ravascletto [34]: un sacco appigliatosi nella sicurezza di una sipa [35], agganciata sul petto, lo fece in pezzi [36].

Dopo 2 giorni di attesa, quando le truppe tedesche e cosacche avevano lasciato i tre paesi di Tramonti e quindi la zona era di nuovo libera, mi portai in Carnia sia per recuperare 3 uomini, che la sera del combattimento si erano spersi e quindi riguadagnato le proprie abitazioni, sia per reclutare eventuali compagni. Feci ritorno con sei uomini tre dei quali erano garibaldini dato che in Carnia non esisteva più un comando dopo i rastrellamenti ed i presidi.

[34] Giobatta Da Pozzo “Folgore”, nato a Ravascletto l’8-02-1916, bracciante, celibe, appartenente alla I Div. Osoppo – III Brg – Btg Monte Canin. Nell’esercito Italiano era sergente maggiore, paracadutista della Div. Folgore nella battaglia di El Alamein dove rimase ferito e quindi rimpatriato. Morto il 20 ottobre 1944, a 28 anni, a Tramonti di Sotto ed ivi tumulato.

Fonti:

- Patria Indipendente, 24 Luglio 2011 in: http://anpi.it/media/uploads/patria/2011/B_INSERTO_Friuli_p_III-VIII.pdf

- Gervasutti S.: “La stagione della Osoppo”, La Nuova base, 1981

 

[35] O meglio “sipe” bomba a mano prodotta dalla Società Italiana Prodotti Esplodenti (SIPE) di Milano

 

[36] Quella descritta è la cosiddetta Battaglia del Monte Rest svoltasi il 16-17 Ottobre del 1944. Nella battaglia trovarono la morte oltre i già citati Giuseppe Zambon (Pecio) e Giobatta Da Pozzo (Folgore), anche Armando Facchin (Sandro) del Btg. Val Meduna nato a Tramonti di Sopra il 3-8-1921 e deceduto il 17-10-1944. Ogni anno, il 17 ottobre, al cippo monumentale sul Monte Rest avviene la commemorazione dei caduti, patrocinata, oltre che dalle diverse Associazioni (Anpi di Pordenone, Istituto di Storia del Movimento di Liberazione di Pordenone), dai Comuni di Tramonti di Sopra, Tramonti di Sotto, Cavasso Nuovo. Manca il Comune di Ravascletto.

Era il 1° novembre 1944: si vedeva sui monti un manto di neve che si considerò valicabile dato che strade e sentieri erano impraticabili per l’armamento dei 3 garibaldini. Il primo valico però risultò estremamente difficile: la neve era fino alla cintola e non sosteneva, cosicchè si arrivò ad un passaggio forzato sul ponte di Muina con 3 buone ore di ritardo. Mentre si scrutava un po’ in giro per rassicurarsi che nessuno in quel momento percorresse la strada, si intravide una cinquantina di cosacchi schierati sotto il muro di sostegno della strada a monte, in attesa di passare il ponte ed entrare a Muina a fare la ben nota razzia che causò 3 vittime [37]. Appena ebbero lasciato il paese e ritiratisi verso Mione, partimmo subito per attraversare il ponte, la via era libera. Arrivati a metà del ponte ci accolse però una scarica di mitragliatrice; fortuna che era alta, sopra le nostre teste, e prima che arrivasse la seconda eravamo già dall’altra parte del fiume con la faccia a terra. Un reparto garibaldino, avvertito di ciò che stava succedendo, si era portato su una altura con la mitragliatrice aspettando che i cosacchi ripassassero il ponte mentre questi avevano preso la via opposta. Nel rientrare al Btg. lo trovai sistemato alla meglio, intento a trasferirsi dal paese in montagna, dato che già si presagiva il ritorno dei tedeschi e cosacchi per il definitivo presidio. Sapemmo poi che due colonne, una proveniente da Longarone e l’altra da Redona, facevano marcia su Tramonti essendo il passo controllato dalle forze partigiane. Le molte unità impiegarono più di una settimana per arrivare. Il 2 dicembre 1944 la colonna proveniente da Redona, alle 5 del mattino, piazzava 3 batterie a 1 Km da Tramonti che furono accolte subito da scariche di Bren e da colpi di Bazooka. La resistenza cessò quasi subito per non portare conseguenze e rappresaglie al paese. La sera però era già chiusa ogni via d’uscita. I tedeschi provenienti da tutte le strade e sentieri che facevano capo a Tramonti le avevano bloccate credendo così di prendere in trappola l’ultimo rifugio carnico-friulano con chissà quali forze partigiane.

Fu assai difficile poter portarsi fuori dall’accerchiamento dato che le montagne erano coperte di neve che non permetteva di camminare. Con il presidio della zona di Tramonti si terminò così la grande operazione di rastrellamento della provincia di Udine che tenne impiegato imponenti forze tedesche, repubblichine e cosacche. La zona carnica venne posta sotto il presidio cosacco.

[37] Secondo Toppan Antonio (in “Fatti e misfatti in Carnia durante l’ occupazione tedesca – narrazione obiettiva, Val Degano, 25 luglio 1943 – 5 maggio 1945, Tip. V.I.T.A., 15 novembre 1948) il 1° Novembre 1944 squadre russe di Ovaro ed altre provenienti da Comeglians irruppero a Muina ove oltre a perquisizioni e saccheggi provocarono la morte di due civili (Gallo Ettore di 38 anni e Micoli Elio di 41 anni). I prigionieri, catturati sia a Muina che successivamente ad Agrons e Cella, furono condotti ad Ovaro per la fucilazione. Furono risparmiati grazie all’intervento di Don Pietro Cortiula e di Giuseppe Martinis. E’ probabilmente a questo episodio cui Miro di riferisce anche se riporta tre vittime e non due. Le scorrerie ed uccisioni a Muina, ma anche ad Ovasta, Luint, Mione, Agrons, tuttavia proseguirono il giorno seguente: in totale 12 morti. Il 3 Novembre la popolazione di Muina abbandonava il paese rifugiandosi ad Ovaro. A Muina i russi stabilirono un loro Presidio di Cavalleria che rimase fino alla ritirata.

Queste truppe avevano portato seco, dalle lontane pianure russe, vecchi, bambini, donne, cavalli, vacche, carri, carriole, ed un armamento dei più disparati acquisito durante il loro cammino. Ogni paese, pur piccolo, aveva il suo presidio: trenta, cinquanta uomini a seconda di come lo calcolavano più o meno pericoloso; queste truppe  lasciate alla loro mercè si trovavano loro stesse in difficoltà sia per la stabilità sia per il vettovagliamento. Una volta per settimana veniva distribuito loro una misera razione di viveri. Tutti i paesi carnici a partire dal dicembre 1944 furono privati di ogni genere di viveri; immaginarsi dunque cosa poteva succedere con dei presidi di 50 – 60 e più persone affamate al pari della popolazione. Si limitarono quindi a ruberie del fieno per le loro bestie, qualche pecora, ed a esigere un po’ di latte [38]. L’inverno fu terribile, ogni passo era invalicabile tanta era la neve; si potè misurare persino in paese 1 metro: i contatti con il comando di Btg. e di Divisione, per le varie compagnie dislocate nei paraggi più vicini alle loro abitazioni, si facevano quindi sempre più difficili.

Personalmente ero responsabile di 12 uomini che per qualche tempo potei tenere nascosti; poi un po’ per il freddo un po’ per la fame un po’ perché si pensava che anche facendoci vedere in abiti borghesi non ci sarebbe derivato alcun fastidio, ritornammo in paese; ci fu però subito la spia che per quanto si fece prima e dopo non si riuscì mai ad individuare.

Avevamo nel paese il comando di compagnia cosacco, il quale naturalmente non seppe a quali santi rivolgersi: male se ci denunciava al suo comando attirandosi così l’odio del paese e la recriminazione di altri partigiani che si sapeva nella zona, male se ci lasciava fare indisturbati, sapendoci armatissimi ed in continuo collegamento con i nostri comandi (avevamo per questo due giovani donne che potevano assolvere indisturbate questo compito).

Si tirò avanti così, guardandoci di sbieco, fino agli ultimi di gennaio 1945; poi vennero la prime scaramucce. Ormai in tutti i paesi i partigiani giravano in abiti civili senza scomporsi dei vari presidi; sembrava che non esistessero nemmeno, e ciò deve aver dato da pensare ai vari comandanti di presidio.

[38] Dal 20 luglio al 10 agosto 1944 alla Stazione della Carnia arrivarono 50 treni per un totale di 2500 carri, carichi di militari, civili, cavalli e cammelli. In totale circa 40.000 persone e 6000 cavalli provenienti dal Don, Kuban, Terek, Astrakan. La popolazione della Carnia in quegli anni ammontava a circa 60.000 persone. Si può immaginare dunque quale peso poteva comportare ad una economia montana di per sé debole ed al momento aggravata dalla guerra e dai ridotti scambi con la pianura, la presenza di tante altre bocche da sfamare. E ciò riguardava non solo la popolazione, ma anche il bestiame: i cavalli venivano nutriti con il foraggio destinato talvolta a quell’unica mucca che rappresentava il solo sostentamento della famiglia, in un periodo del’anno in cui i diversi tagli di foraggio erano terminati. Genericamente designati in friulano come “mongui” erano di diversa etnia (mongoli, georgiani, ucraini, caucasici, russi bianchi) e diversa religione (musulmani, ortodossi), animati dalla speranza di realizzare nelle nostre terre una loro nuova patria (Cossackia o, per i tedeschi, la Kosakenland in Nord Italien come da proclama germanico del 10 Novembre 1943), si insediarono parte nelle diverse vallate della Carnia e parte nel Friuli Orientale. (Fonte: Di Sopra L., Cozzi R.: “Le due giornate di Ovaro – Carnia: 1-2 Maggio 1945 cosacchi, partigiani e civili in un paese in fiamme”. Aviani & Aviani Editori, 3a edizione, Udine, Marzo 2015).

Un bel giorno [39] ci trovammo circondati, cioè circondarono il paese, ed uno alla volta prelevati dalle nostre abitazioni; non tentammo nemmeno di scappare, seppure niente ci impediva conoscendo ogni via già in precedenza, studiata in caso di attacco. Ci trovammo così tutti i partigiani, sia dell’Osoppo che i garibaldini, assieme ad altri giovani del paese in una stanza del comando di presidio; dopo aver fatto la cernita rimanemmo in 4 – 5 per essere interrogati. Mi lasciarono per ultimo; quando entrai nella stanza vidi uscire uno del mio gruppo tutto rosso in viso: lo avevano battuto un po'. Non mi impressionai; entrai; mi fecero sedere. C’era un interprete, il comandante di presidio ed il comandante di Btg. venuto da Cercivento, che dista 7 Km [40]; mi elencarono tutte le armi e gli uomini del mio gruppo e che dipendeva da me, che ne ero il comandante, degli accordi reciproci che potevano essere presi per continuare senza incidenti l’andamento del paese e nostro. Gli accordi erano:

 

1. Consegnare le armi elencate (che corrispondevano esattamente)

2. Non lasciare mai il paese senza un loro permesso.

 

Negai e rifiutai decisamente dicendo che era tutto falso e che niente sapevo. Presi dalla mia risolutezza mi misero contro una parete della stanza ed il Comandante di Btg., estraendo la pistola e puntandomela alle tempie, mi diede tre minuti di tempo per parlare. Risposi che poteva sparare subito senza attendere e che non avevo niente da aggiungere. Gettò la pistola e mi disse che doveva portarmi al comando di Btg.

In quella sera stessa mentre dormivo sdraiato su una panca di una stanza del Comando di Btg., verso le due di notte, vidi entrare dalla porta non solo tutti i partigiani dell’Osoppo e Garibaldi, ma anche giovani che sapevo inclini a simpatizzare per il movimento partigiano. Mi resi subito conto che avevamo sottovalutato le cose e che si metteva piuttosto male. Da un parte però ero contento perché sapevo che almeno niente veniva fatto ai familiari ed agli abitanti del paese, e perché vedevo anche il morale alto dei compagni; il giorno seguente ne arrivarono altri dai paesi limitrofi. La prima sera che ci contammo per vedere se era possibile sdraiarsi tutti sul pavimento di tavole in una stanza al secondo piano di m 3,50 x 4, eravamo in 36. Non riuscii mai a capire come si poteva dormire uno a fianco dell’altro senza poter muoversi, senza il minimo spazio, senza niente sotto le membra; quando uno per disgrazia doveva andare al gabinetto allora erano guai. Ci interrogarono uno alla volta, ma naturalmente non cavarono niente. Passavano così i giorni mangiando una volta ogni tanto, quando qualche familiare aveva qualcosa da portare e dividevo poco o tanto fra tutti: si cantava però ogni giorno. Dopo i primi tre giorni presero ad interrogarmi ogni giorno, sapendo che dipendeva da me più o meno tutto quello che potevano sapere; provarono con le buone e con le cattive, però non cedetti fin quando potevo contare sulla compattezza di tutti i compagni.

 

[39] Febbraio 1945

 

[40] Il paese di Zovello (come Ravascletto, Povolaro, Comeglians, Cercivento, Sutrio, Paluzza, Treppo Cranico, Paularo, Arta Terme, Zuglio, Val Pesarina ed alta Valle Degano con Rigolato e Forni Avoltri) era controllato dal presidio caucasico con sede a Paluzza ed al comando del principe Atamano Sultan Girej Klitch impiccato a Mosca il 16 gennaio 1947. Il contingente caucasico giunse nella zona fra il 4 e 12 Ottobre 1944 (Fonte: Di Sopra e Cozzi, 2015. op. cit.)

Dopo 25 giorni ripresero ad interrogare uno per uno ed un po’ con le minacce continue, un po’ con le botte, un po’ con la fame che si pativa cominciai a rendermi conto che la compattezza cominciava ad infrangersi. Cercai di tener duro e di dominare la situazione più che potevo, ma ciò che avevo notato io era stato pure avvertito dai due comandanti che interrogavano, tanto che un bel giorno mi dissero che mi davano 24 ore di tempo per parlare e per recapitare le armi, dopo di che, se ci fossimo ancora rifiutati, ci avrebbero consegnati ai tedeschi. Parlai con i compagni e riuscii ancora a convincerli a tener duro, ma quando vedemmo dalla finestra arrivare un camion di tedeschi, vidi più d’uno diventare bianco. I famosi campi di Mauthausen e Dachau, di cui già si sentiva parlare ed illustrare, fecero paura e le armi individuali non valevano 20 uomini. Dopo qualche minuto mi portarono  davanti ad un maggiore, un tenente ed un sergente che fungeva da interprete; con loro c’era il comandante della Zona Cosacca, un principe di cui non ricordo il nome [41]. Con poche parole i tedeschi mi fecero capire che non c’era tempo da perdere: o la consegna delle armi o l’indomani ci avrebbero presi in consegna loro stessi e deportati.

Tentai di resistere e di opporre una spiegazione mentendo tutto come avevo fatto fino allora. Ci fu una breve conversazione tra loro; poi mi rivolsero di nuovo la parola, non c’erano intransigenze: si o no; il comandante cosacco mi dava la sua parola che niente sarebbe successo e che ci poneva subito in  libertà dopo la consegna delle armi. Chiesi di parlare con i miei compagni e a quali condizioni si poteva patteggiare. Mi diedero 10 minuti per riferire sulla loro proposta e poi intavolare il patteggiamento. Parlai con i compagni e lasciarono decidere a me quali sarebbero state le garanzie; nel sentire che la consegna delle armi ci avrebbe permesso subito la libertà parvero sollevati.

 

 

 

[41] Il principe Atamano Sultan Girej Klitch sopra nominato in nota [40]

Ritornai nella stanza dove mi attendevano e dissi che ero deciso a consegnare le armi e che per prima cosa, dato che ero sotto la responsabilità dei cosacchi, avrei trattato la cosa con loro dopo la partenza dei tedeschi. Rimasi stupito nel vedere che ipso facto si salutarono e i tedeschi partirono. Mi rimaneva sempre il dubbio che dopo consegnate le armi ci avessero trattenuto oppure presi provvedimenti contro i familiari; comunque decisi che una volta liberi dovevamo ben guardarsi anche loro da quello che facevamo. Decisi perciò che ogni 3 – 4 uomini che uscivano per andare a prendere le proprie armi, dopo consegnate, fossero rimessi subito in libertà senza far ritorno; per constatare l’avvenuta liberazione uno doveva tornare senza aver consegnato le armi. Visto il procedimento in 2 giorni rimasi solo in prigione; dato che il mio Sten era assieme a quello di mio fratello se li presero tutti e due in una volta. Rimasi per altri 4 – 5 giorni solo e ogni giorno mi portavano qualche borghese che conoscevo e che aveva avuto qualche contatto o qualche incarico dai partigiani; li interrogavano e l’indomani li rilasciavano. Infine venne anche il mio turno. Dopo essere messo in libertà per 38 giorni ogni sera veniva una pattuglia di 2 uomini con il comandante, armati fino ai denti, a vedere se eravamo a casa io e mio fratello. Il coprifuoco era alle sei di sera fino alle sei del mattino. Qualche volta mi trovavano e qualche volta venivano a cercarmi dalla fidanzata un po’ fuori paese. Sapevo che potevano essere 10 pattuglie per il paese, ma io andavo e rincasavo lo stesso a tutte le ore senza farmi pescare.

Per essere più tranquilli tre erano andati in un paese vicino a lavorare con la Todt [42] cioè per avere il cartellino e non essere disturbati; i rimanenti andarono a lavorare con la ditta De Antoni [43] la quale ci fece il cartellino di esonero per le armi ed eventuale cattura nei rastrellamenti. Si lavorava 2 – 3 giorni la settimana ed intanto si aveva quel po’ di tessera che davano ai lavoratori. Vennero così i primi di marzo e le montagne a sud cominciarono a scoprirsi; ormai si poteva valicarle e così si partì per recuperare le armi nascoste durante il tragitto dal luogo di residenza del Btg. al paese. Si partì in tre, io e altri 2 compagni [44]; in paese non ci facemmo fare il lasciapassare, ma ci portammo a Villa Santina e con il tesserino di lavoratore affrontammo il comando tedesco per un lasciapassare per Tramonti dove la Ditta De Antoni aveva dei lavori (ci serviva per transitare le strade senza dover affrontare le montagne andata e ritorno). Non si sapeva che appena un’ora prima era partito un camion della Ditta De Antoni con 20 operai e quindi con il lasciapassare collettivo richiesto dalla Ditta medesima. Quindi alla presenza del Maggiore tedesco, che ci fece chiamare per chiarire la nostra presenza e richiesta - non per lode ma ho sempre avuto una prontezza di spirito per trarmi d’impaccio in casi direi sporadici - risposi che noi eravamo già sul lavoro e che ci eravamo recati a trovare la famiglia e forse per una disattenzione del nostro capo non venne notificato alla Ditta. La prontezza e la voce furono decisive tanto che questo Maggiore ci fece il permesso senza nemmeno pensare di telefonare alla Ditta per chiedere se corrispondeva a verità. Due giorni dopo eravamo ad affrontare circa 14 ore di cammino attraverso boschi e valichi con 2 Bren, 25 caricatori carichi, 1 carabina, 1 Sten. Riuscimmo a passare inosservati vicino ai lavori di fortificazione in prossimità di Verzegnis ove i tedeschi presidiavano in quanto passaggio obbligato.

[42] L'Organizzazione Todt fu una grande impresa di costruzioni creata dal Ministro degli Armamenti e degli Approvvigionamenti tedesco Fritz Todt. Impiegando il lavoro coatto operò prima in Germania e poi in tutti i paesi occupati dalla Wehrmacht con il principale ruolo di costruzione di strade, ponti e altre opere di comunicazione, vitali per le forze  armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, così come della costruzione di opere difensive

(Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Organizzazione_Todt)

 

[43] Dal Libretto di Lavoro risulta assunto dalla Ditta Umberto De Antoni con qualifica di boscaiolo 

 

[44] Da altro scritto la partenza per la zona di Tramonti avviene il 9 Aprile 1945 con i patrioti Vulgar e Oscar (le attuali ricerche per il momento non ci consentono di stabilire i loro nominativi)

Per quanto si camminasse veloci non riuscimmo ad arrivare nello stesso giorno a Villa Santina e dovemmo dormire in una baracca di carbonai in un bosco. Nel trasportarle poi da Villa Santina a Piera Beck, sopra Forni Avoltri, dove avevamo già sei uomini per preparare il necessario in caso di partenza della compagnia che poteva essere da un giorno all’altro [45], facemmo dei fasci di ritagli di tavole in una segheria della Ditta Raber ed in ogni fascio nascondemmo o un Bren o munizioni o altro materiale. Caricammo poi i fasci su un camion della stessa Ditta che trasportava tronchi di abete da Piera Beck a Villa Santina. Quando avevamo finito di caricare arrivò proprio il padrone che mi chiese dove andavo con quei fasci. Alla mia risposta mi chiese se sono pazzo: facendoti pagare il trasporto, mi disse, le compri 4 volte sul luogo. Ormai sono caricate dissi. Forse aveva capito, compreso l’autista. Appena fuori Villa Santina 5 cosacchi fermarono il camion per essere trasportati a Comeglians: non si poteva rifiutare. Si sedettero sui fasci. Il fondo stradale era pessimo, pieno di buche, per cui il camion faceva certi salti che mi facevano rabbrividire; i fasci scricchiolavano e se si fosse rotto un fil di ferro che li teneva legati si avrebbe compromesso tutto. Andò bene fino a Comeglians e furono contenti per il passaggio ricevuto. Aggiustammo i fasci per bene per il tragitto che si doveva ancora percorrere. Fuori Comeglians altri 3 cosacchi attendevano un passaggio per Forni e naturalmente altra fermata. Se da una parte comportava un rischio dall’altra era un bene perché i posti di blocco venivano superati senza fermate né permessi né  controlli. Tirai un sospiro di sollievo quando le armi furono a posto.

Il 27 aprile 1945 partimmo per raggiungere i compagni di Piera Beck. Il 26 i cosacchi che si trovavano a Zovello, alcuni al mattino ed il resto verso le 14, partirono da Zovello per raggiungere il comando di Btg. che si era portato a Forni Avoltri. Tutti i paesi sia liberi che ancora presidiati, erano tutti in rivolta, era cioè l’insurrezione, la libertà che si profilava e da tanto tempo aspettata, specie in luoghi senza risorse e sottomessi [46].

 

[45] Il Btg. Monte Canin dunque aveva spostato la propria zona di operazioni nell’alta Valle Degano e il trasporto di armi da Villasantina avveniva (come da altri appunti) il 18 Aprile 1945.

 

[46] In altri scritti dell'A. viene annotato che i presidi cosacchi di Forni Avoltri e Rigolato sono disarmati il 28 Aprile, e quello di Comeglians il 1° Maggio. Il Btg. Monte Canin dunque dalla zona di Tramonti si porta, nella sua operatività, nell’alta Valle Degano almeno verso la metà di Aprile, per poi discendere nell’azione di disarmo dei presidi cosacchi da Forni Avoltri a Rigolato, Comeglians ed infine Ovaro ove si congiunge con i partigiani garibaldini del Btg. Nassivera (cfr. anche Di Sopra e Cozzi, 2015 – pag. 142. op. cit.)

Vorrei aprire qui qualche riga per sottolineare il sacrificio che fece il popolo carnico. Fu depredato prima dai fascisti con ammassi di fieno, di prodotti caseari, di carne da macello (vacche, maiali), ecc.. La povera gente dava, un po’ perché era costretta, un po’ perché credeva che queste cose andassero proprio ai soldati al fronte dove c’erano i migliori giovani; in ogni famiglia carnica c’erano 1 - 2 - 3 cosacchi ed anche 4. In 5 anni di vita militare trascorsi (sui confini Iugoslavi, Cividale, Albania, Tarquinia e Pistoia, ed infine Sardegna) non ho mai mangiato una scatoletta di carne di maiale, né avuto generi di conforto o indumenti speciali.

Vennero poi i tedeschi: rubarono, ammazzarono, incendiario, lasciando la disperazione.

Infine ci furono, dal mese di Novembre al 27 Aprile [47], i presidi cosacchi. Tutta gente che proveniva o da ricche famiglie o da intellettuali e molti giovani lasciatisi ingannare dalla propaganda hitleriana; furono però il meno dei mali in quelle condizioni che anche loro erano dei disgraziati.

Tutta la Carnia, per lo più donne e ragazzi, sconfinavano nella pianura friulana con gerla, slitte tirate a mano, o con mezzi di fortuna tedeschi che ancora si prestavano per il trasporto, per centinaia di chilometri in cerca di qualche chilo di farina di granoturco o frumento. Dicendo la verità la pianura friulana non contribuì e non comprese quale era la fame che c’era in Carnia ed a stento le donne carniche riuscivano a racimolare 15 – 20 Kg di granaglie. I soldi non valevano più per i contadini della pianura per cui queste donne si privavano della loro dote, lenzuola di lino, copriletti, oro come catenine, anelli, ecc. perché questo volevano in cambio delle loro granaglie. Con i partigiani, che in borghese lavoravano in pianura, le cose cambiarono un po’ perché questi requisivano e con camions facevano dei trasporti verso Tramonti ed il monte Rest, unica via che era in mano nostra, onde poter dare una volta tanto qualcosa alle famiglie che già da mesi erano prive di qualsiasi genere alimentare. La tessera, cioè i generi, non arrivavano.

 

 

 

[47] Il Nostro indica il mese di Novembre 1944 come insediamento dei “mongui”. In realtà in altre zone della Carnia tale insediamento avvenne anche prima e nella zona del Comune di Ravascletto, come già sopra riportato, dal 4 al 12 Ottobre ’44 (Fonte: Di Sopra e Cozzi, 2015. op. cit.)

 

Comeglians, Ovaro, Villa Santina, Verzegnis e paesi limitrofi erano ancora occupati dai cosacchi; anche costoro erano al limite delle loro forze per mancanza di cibo e di comando. I tedeschi in ritirata per la via Udine-Tarvisio e Monte Croce avevano lasciato queste truppe cosacche in balia a se stesse, prive di ogni sostentamento.

Dopo i primi disguidi che avevano portato parte di queste truppe georgiane dalla parte dei partigiani, ed i partigiani stessi avevano occupato Comeglians e Ovaro e limitrofi, nel momento di trattare la resa, si chiedevano loro solo le armi e quindi sarebbero stati lasciti liberi fino alla venuta delle truppe alleate. Acconsentirono in un primo tempo fissando le ore 17 del giorno 1° Maggio 1945. Le truppe di Comeglians si erano ritirate parte su Chialina e parte su Ovaro. All’ora fissata i nostri incaricati portandosi sul luogo stabilito vennero fatti segno a colpi di parabellum. I partigiani erano tutti in Ovaro, circa una sessantina di uomini, il Btg. Canin con 40 uomini [48] (avendo le altre forze a Tramonti) e poi una ventina di garibaldini.

 

 

 

[48] In Di Sopra e Cozzi (2015) (op. cit.) si parla di 25 uomini del Btg Monte Canin e 20 uomini del Btg. garibaldino Leone Nassivera: totale 45 uomini cui si aggiungevano i georgiani (di questi alcuni parlano di 70 uomini, altri di 30, altri di 10). Si può fare una stima di 100 uomini contro circa 250 unità cosacche dislocate fra Chialina e Ovaro.

Battaglione Monte Canin, Comeglians 1945

Battaglione Monte Canin, Comeglians 1945

Sul retro della foto: Pezzan Albino assente, ma partigiano. Anche Toni gnesa (Fior Antonio) (entrambi di Zovello)

Nembo, Comeglians 1945

Metà del Btg. Canin si trovava nel refettorio della cartiera per consumare la cena, dopo 12 ore di digiuno. Il primo gruppo aveva già consumato il pasto e si era incamminato poi all’appuntamento per il ritiro delle armi. Avevo già nel piatto una grossa fetta di polenta con intingolo di carne e solo il profumo mi faceva prelibare il gusto della pietanza. Non feci in tempo ad assaggiarla che fu dato l’allarme e si dovette lasciare tutto per portarsi in paese dove già era stato aperto il fuoco da ambo le parti con fucili e bombe a mano. Fummo ricevuti da una scarica di parabellum e bombe a mano avendo  proprio  imboccato  la strada  che  portava  sotto l’albergo Martinis ove parte dei cosacchi erano asseragliati [49], un’altra parte erano nelle tende e poi a Chialina nella caserma dei carabinieri.

 

 

 

 

[49] All’Albergo Martinis si era rifugiato, con 50 cosacchi, il comandante del presidio Maggiore Nauziko che rifiuta la resa lanciando una bomba a mano ed aprendo il fuoco contro il comandante unico Paolo (Alessandro Foi) dell’Osoppo e Furore (Elio Martinis) comandante del Btg garibaldino Leone Nassivera.         

Colti di sorpresa a pochi metri, gli uomini indietreggiarono e vedendosi poi inseguiti dalle pallottole ripiegarono oltre il fiume che alimentava la cartiera. Io e il comandante di Btg. [50] ci gettammo per terra cercando di fermare gli uomini per rispondere al fuoco, ma le numerose bombe a mano che ci scoppiavano intorno ci fecero ripiegare e oltrepassare il fiume proprio in un punto dove l’acqua era fino alle ascelle e l’impetuosità ci aveva fatto perdere l’equilibrio. Fu un attimo: gettandosi uno contro l’altro riuscimmo con uno sforzo a tenerci e passare senza essere coinvolti [51]. Per ben tre ore restammo nel bosco assieme agli uomini che naturalmente non sapevano che pesci pigliare, poi decidemmo di ripassare il fiume e portarci in qualche casa ad asciugarci perché ormai nevicava forte, si gelava dal freddo e i vestiti erano un pezzo per il ghiaccio.

Verso le 3 del mattino [52] 5 – 6 uomini dei nostri e qualche garibaldino vennero in possesso di 2 mine anticarro arrivate da Sappada; dopo ripetuti inviti fatti ai cosacchi rinchiusi nella caserma dei carabinieri a Chialina e non volendo arrendersi, queste vennero collocate sotto la porta della caserma e fatte esplodere [53]. L’edificio a 2 piani crollò completamente. Si estrassero 16 – 17 morti ed una trentina di feriti leggeri [54]. Intanto all’alba si procedeva all’accerchiamento di Ovaro arrivando da vari lati sia all’albergo Martinis sia nelle scuole che attaccate al Municipio formavano un unico edificio. Si cominciò a sparare nelle finestre, ma dall’interno rispondevano al fuoco sia dalle finestre sia dal tetto ed i vari parlamentari inviati per la resa non ebbero alcuna risposta se non un deciso no.

Ormai si era appiccato  il fuoco al tetto e si aspettava di momento in momento il crollo, ma verso le 3 del pomeriggio venivamo presi alle spalle da scariche di parabellum.

Si sapeva che da Villa Santina e paesi limitrofi si era fermata una colonna di  circa 20 mila cosacchi che marciava su Ovaro, Comeglians, Ravascletto, Paluzza, Timau e quindi in Austria: chissà cosa credevano di trovare in Austria? Quindi gli asseragliati di Ovaro, avendo ricevuto antecedentemente la notizia, resistevano per unirsi poi alla colonna. L’avanguardia della colonna, intanto, passando per una vecchia strada sopra il paese, si era portata alle nostre spalle [55]. Fummo di nuovo presi di sorpresa e quindi chi da una parte chi dall’altra retrocesse verso Comeglians e quindi Rigolato e Ravascletto. Erano circa le 3 e mezza - 4 del pomeriggio (con me di giorno alle scuole c’era solo un mio compagno – Oscar – ed un georgiano che pochi minuti prima si era allontanato).

[50] Otto (Fabbro Rinaldo)

 

[51] Dalla testimonianza di Otto (in Le due giornate di Ovaro – Di Sopra e Cozzi – op. cit., pag. 213): “ … Non potendo reagire efficacemente (alla sparatoria cosacca n.d.r.), ordinai ai miei la ritirata, guadando il fiume. Anche in quella circostanza rischiai la vita: il tempo era pessimo, scendeva la pioggia e nevischio e attraversando il fiume scivolai su un sasso viscido, finendo a mollo. Ero fino alle ginocchia nell’acqua gelata e la corrente impetuosa del fiume stava per trascinarmi via, quando Nembo, uno dei miei partigiani, riuscì ad afferrarmi per un braccio e a trarmi in salvo.”

 

[52] Del 2 maggio 1945

 

[53] Secondo il Toppan (1948) (op. cit.) lo scoppio avvenne alle 4.55 del 2 Maggio.

 

[54] Toppan (1948) (op. cit.) indica 23 morti, fra cui due donne; Di Sopra e Cozzi (2015) (op. cit.) 28 morti, 30 feriti e 62 prigionieri. I cadaveri furono seppelliti in località Patossera, mentre i feriti trasportati a Comeglians furono ricoverati all’albergo Val Degano.

 

[55] Si tratta dei rinforzi di cadetti che partendo dalla testa della colonna cosacca in ritirata e ferma nello stretto di Muina, con largo giro si erano portano alle spalle dei partigiani, scendendo da Lenzone e raggiungendo la Chiesa di Ovaro e Chialina. I cadetti erano comandati dal Colonnello Galuboff.

(Vedi: Pier Arrigo Carnier - http://pierarrigocarnierstoricoegiornalista.blogspot.it/ - 23 Settembre 2013)

Miro - Nembo e Fabbro Rinaldo - Otto , Battaglione Monte Canin, Comeglians 1945

(Per gentile concessione dell'Associazione Partigiani Osoppo-Friuli: http://www.partigianiosoppo.it/)

Fummo gli ultimi ad essere presi sotto il fuoco del parabellum. Mi guardai in giro e non mi rendevo conto di quanto avvenisse: era cessato il fuoco dell’accerchiamento ed aumentato quello proveniente dagli accerchiati, ma quello che più mi preoccupava erano le scariche  che passavano a qualche centimetro sopra il muretto di sostegno di un cortile dietro cui ci eravamo riparati. Eravamo dunque presi fra due fuochi ed esitai un po’ prima di ritirarmi. Purtroppo le scariche si avvicinavano sempre di più e non potevamo rispondere dal momento che non riuscivamo a capirne la provenienza. Balzammo d’un tratto oltre un’abitazione, da questa, sempre di corsa, nella sottostante strada provinciale riparandosi sotto il muro di cinta; ora le pallottole ci seguivano di fianco e di dietro, ma la fortuna ci fu protettrice e riuscimmo a portarsi fuori tiro. Dei nostri compagni nessuna traccia.

A Chialina trovammo uno il quale ci disse che aveva visto un morto ed un mio amico (Moro) che era ferito. A Comeglians apprendemmo che parte dei partigiani era in ritirata su Rigolato e parte su Ravascletto. In quel momento partì, diretta ad Ovaro, una macchina con il Cavalier De Antoni [56], il veterinario di Comeglians [57], l’ingegnere della miniera di Ovaro [58] e il Direttore della Banca Cattolica  Migliorati [59]. Quello che andassero a fare non sono mai riuscito a saperlo [60].

Io ed il mio compagno ci fermammo un po’; lui aveva i piedi impiagati [61] ed a stento camminava per cui non potè accompagnarmi per ritornare su Ovaro a vedere quello che succedeva, e poi mi stava nella testa il compagno Moro che avevo saputo ferito. Si avvicinò a noi un garibaldino che era proprio di Chialina, fraz. Di Ovaro, e disse che mi accompagnava volentieri. Arrivati vicino al paese io per precauzione volevo salire sopra la strada, a circa 100 metri, ove passava anni prima un trenino e che allora era coperta di arbusti e sterpi tanto che ci si poteva avvicinare inosservati e si poteva dominare la piccola frazione. Ci fu fra noi quasi una disputa dato che questo garibaldino voleva proseguire per la strada che poi attraversava il paese: mi apostrofò che ho paura, se non sono armato per difendermi, tanto che mi costrinse a prendere la strada principale. Purtroppo subito dopo una curva vedemmo 4 – 5 cosacchi puntarci addosso il parabellum da circa 60 – 70 metri. A fianco della strada una mitragliatricie che puntava sulla curva. Che fare? Uno di loro ci gridò in alto le mani e non ci fu tanto da scegliere fra una scarica o la cattura. Alzammo le mani. In un attimo ci furono addosso e ci disarmarono; a qualche centinaio di metri dal paese fummo posti contro la saracinesca di un garage dove poco dopo si unirono a noi un borghese con il collo fasciato, ed una guardia forestale in divisa. Ci fecero proseguire su Ovaro. Rientrando in paese si cominciò a vedere i primi cadaveri disseminati per la strada, borghesi e georgiani, che avevano combattuto con noi. Scuole e municipio erano in fiamme assieme ad un altro stabile.

[56] Cavalier Umberto De Antoni

 

[57] Dr. Giulio Michelini

 

[58] L’ing. Rinaldo Cioni o l’Ing. Franz Gnadlinger (? – poco probabile in quanto questi gravitavano già in quel di Chialina – Ovaro, e l’Ing. Cioni, di 33 anni, Presidente del C.L.N. Val di Gorto, sarà ucciso dai cosacchi il 2 maggio)

 

[59] Rag. Migliorati De Antoni.

 

[60] Secondo Toppan (1948) (op. cit.) e Di Sopra e Cozzi (2015) (op. cit.) i 4 della macchina erano il Cav. Umberto De Antoni, il veterinario Dr. Giulio Michelini, il bancario Rag. Migliorati De Antoni e l’autista Giuseppe Lepre. E’ possibile dunque che Miro abbia scambiato l’autista Lepre per un Ingegnere della miniera di Ovaro.   

 

[61] Con le piaghe

Ci portarono sulla piazza del paese ove già si trovavano i quattro signori della macchina poco fa descritti; erano contro un muro, in mezzo passava la strada ed all’altro fianco della strada 6 guardie [62]. Ci fecero mettere assieme a loro in fila contro il muro.

Naturalmente ci si aspettava solo la fucilazione. Molti di loro ci passavano davanti gridandoci parole che ci erano sconosciute, ma si capiva la loro collera; erano quasi tutti feriti, alla testa, alle braccia o altro, comprendemmo la loro collera. Da quanto si poteva capire aspettavano il comandante del presidio di Ovaro, un capitano che lo vedemmo avvicinarsi sghignazzando e molto avvinazzato che a forza si reggeva in piedi; ci guardò compiaciuto e si portò poco lontano da noi dando degli ordini [63]. Poco dopo vedemmo giungere un plotoncino di soldati con parabellum comandati da un tenente. Si schierarono di fronte a noi a circa 20 metri (nel mezzo passava la strada provinciale). Fecero l’ispezione delle armi e poi caricarono; in quel momento si gridò assieme “viva l’Italia”, io ed il garibaldino aggiungemmo: “Morte al fascismo e libertà ai popoli” [64].

Il tenente che comandava il plotone aspettava il comando del capitano che si trovava poco distante. In quei brevi attimi arrivò una macchina fermandosi all’altezza ove si trovava il capitano; ne discese un vecchietto in uniforme di generale: era il comandante in capo delle Forze Cosacche dislocate in Carnia (Generale Wasiliew); parlò con il capitano e poi rimontò in macchina passandoci davanti. Il plotone di esecuzione si allontanò, venimmo legati con una cordicella con le mani dietro la schiena; mi fecero un po’ male, ma poi tirando con tutta forza si allentò un po’ e mi lasciò tranquillo. Due dei compagni furono legati tanto stretti che vennero loro le mani tutte nere, e non vollero slegarli.

[62] Da altre note riporta che di fronte al plotone di esecuzione si trovavano 5 civili ed altri due compagni

 

[63] Probabilmente trattasi del Maggiore Nauziko

 

[64] Il motto caratteristico dell’Osoppo era “Viva l’Italia libera”, mentre quello della Garibaldi “Morte al Fascismo, Libertà ai Popoli” (Pieri Gino: “Storie di Partigiani”, Aviani & Aviani Editori, Udine 2014 – pag. 10).

Da Ovaro ci portarono fuori paese ove c’era un ponte fatto saltare per metà; ci misero in ginocchio 4 per 4 con l’ordine di non voltarci. Avevamo 4 guardie da una parte e 4 dall’altra; dopo circa 10 minuti in quella posizione mi voltai di scatto per vedere quello che succedeva: due soldati erano indaffarati a piazzare una mitraglia pesante ed infilare il nastro. Uno schiaffo di una guardia mi fece rigirare con lo sguardo in avanti. Erano momenti che non si pensava proprio a niente di quello che succedeva. Unico mio pensiero era quello di innervosirmi contro me stesso per essermi lasciato convincere e di conseguenza prendermi per aver ascoltato altri. Ero sempre riuscito a trarmi di impiccio negli anni di vita militare ed i diversi mesi di partigiano, ma ora purtroppo non c’era niente da fare, capivo che tutto era inutile e mi ero, o meglio, avevo assunto un comportamento pacifico senza pensare a niente di quello che era successo o poteva succedere.

Aspettavo di momento in momento la scarica che doveva stroncarci, purtroppo si faceva attendere, ed i ginocchi cominciavano a far male. Finalmente arrivò una guardia seguita da un interprete, ci fece alzare e ci disse che per ordine del generale Wasiliew eravamo considerati degli ostaggi fino al Passo di Monte Croce (confine con l’Austria), dovevamo seguire la colonna fino quando era entrata in Austria, si doveva quindi percorrere a piedi circa 23 Km ed era due giorni che non si prendeva cibo. Se la colonna veniva attaccata nella sua marcia saremmo subito stati fucilati. L’ordine sarebbe stato subito trasmesso nei paesi che più o meno toccavano la strada ove passava la colonna. Portarono via la mitraglia e ci incamminarono verso Villa Santina ove ai lati della strada bivaccava la colonna, snodandosi per circa 4 Km. Appena incontrammo le prime soldataglie capimmo subito che si era sparsa la voce (chi eravamo, cosa facevamo e cosa avevamo fatto): cominciarono a coprirci di sputi, a puntarci il parabellum, a punzecchiarci con le baionette ed a darci qualche sberla. Le 8 guardie che ci seguivano dovettero puntare il parabellum e informare, man mano che si proseguiva, che avrebbero fatto fuoco contro chi avesse sparato o si fosse avvicinato. Percorremmo circa 2 Km poi ci fecero ritornare su Ovaro e ci schierarono di fronte il Municipio che ancora ardeva e mandava lontano il calore delle grandi fiammate. Ormai era notte ed in quelle 4 ore di attesa prima di metterci in cammino, cominciai a pensare alla fuga; passai metro per metro nella mia mente la strada che dovevamo percorrere (la conoscevo dato che in quei posti ero nato); attuai quindi nella mente il piano di fuga che doveva essere all’entrata di un bosco dopo Comeglians ove contavo che si sarebbe arrivati all’alba. Verso le 2 di notte [65] si mise in moto la colonna, noi eravamo circa alla metà della colonna, 2 per 2, dopo averci verificato la legatura delle mani. Avevo davanti a me circa 4 Km e 500 metri, la colonna si fermava ogni mezz’ora e si proseguiva lentamente.

Pensai che se avessi potuto slegarmi le mani con quattro salti nel bosco sarei stato libero. Cominciai così a fare sforzo con ambo le mani cercando di allentare la corda fino a poter uscire con una mano. Non so come non mi spaccai i polsi con lo sforzo che facevo. Dopo un paio di ore riuscii a sfilare una corda (dato che erano 4-5 quelle che serravano). Ormai era fatta, bastava solo attendere ed avere fortuna che non ci avessero di nuovo verificato la legatura.

 

 

[65] 3 Maggio 1945

A questo punto termina il 1° quaderno di Diario. Da altri scritti si desume che Miro non è riuscito a scappare, ma fu fatto proseguire fino a Paluzza e mantenuto in stato di detenzione per tre giorni. Il 9 maggio fu liberato e potè riprendere la strada per il paese.

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