top of page

Poesie - Parte seconda

14.  I vari

15.  Il  Clip

16.  La mari

17.  Sclêsas

18.  Lâ a dimprest

19.  Il volontari

20.  Il temerari

21.  Il biât

22.  Scrivi

23.  Il timp

24.  Il pulc’

25.  Fra forestîrs

26.  La contina

Ancora 1

Di pâri in fî

 

Vêso fat tros aigns di soldât,

Pieri?

Fra permanent,

la Libia,

la guera dal disevot

in d’ai faz vot.

Cui ae inventât

las patrias

che quant ch’a ti clamin

bisugna lâ.

Stâ mês

tar una trincea

encja cenča reclamâ.

A ti mandin a l’assalt

cenča parcè

a copâ âtis oms

como te.

Dopo tant fat e lavorât

nencja la pension

no mi àn dât.

E nol è finît aì…

Gno fî

imbasdîd dal disesiet

in timp da l’invasion

al à fat

fra permanent,

duta la guera,

e il partigjan

dibot siet.

Al è stât fortunât

sinò nol sares tornât.

Cumò al è tar una miniera

in Belgjo

a gjavâ cjarvon.

Chesta a è la volta

ch’a lu fasin murî

par dabon.

Il plui pičul

dal milnufcent e vincjequatri

fra soldât e partigjan

and’à faz doi:

ma l’è stât

sfortunât,

doi viaz ferît

e dopo un tumôr

lu à scjafoiât.

Di padre in figlio

 

Quanti anni di militare avete fatto,

Pieri?

Con il permamente,

la Libia,

la guerra del diciotto

ne ho fatti otto.

Chi ha inventato

le patrie

che quando ti chiamano

devi andare.

Fermarsi mesi

in una trincea

e senza lamentarsi.

Ti mandano all’assalto

senza una ragione

ad uccidere altri uomini

come te.

Dopo tanto fatto e lavorato

neanche la pensione

mi hanno elargito.

E non è finita lì...

Mio figlio

concepito nel diciassette

al tempo dell’invasione

ha fatto

con il permamente,

tutta la guerra,

e il partigiano

quasi sette anni.

E’ stato fortunato

a ritornare.

Ora è in una miniera

in Belgio

ad estrarre carbone.

Questo è il momento

che lo fanno morire

per davvero.

Il più piccolo

del millenovecento e ventiquattro

con il soldato e il partigiano

ne ha fatti due:

ma è stato

sfortunato,

due volte ferito

e dopo un tumore

l’ha soffocato.

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 2

I partigjans

 

In prin ju clamavin

Ribei.

Epûr no vevin divisâs

ne manganei.

Una sclopa su la spâla,

pocjas munizions

e mancul da mangjâ.

Si ju viodeva

pas monz,

ogni tant

tai paîs

s’a vessin vût

las svualas

a saressin lâz

encja in paradîs.

Il pulpit al interven;

guai a vuatis parochians,

brusait il mac

di san Ğuan

par scongjurâ

chest flagjel.

Par furtuna

ai àn savût

ben comenčâ

dividint i vivars

dal amasso

a dâju a int da mangjâ

(1945)

I partigiani

 

All’inizio li chiamavano

Ribelli.

Eppure non portavano divise

nè manganelli.

Un fucile in spalla

poche munizioni

ed ancor meno da mangiare.

Li si vedeva

sui monti,

ogni tanto

nei paesi

se avessero avuto

le ali

sarebbero saliti

anche in paradiso.

Il pulpito interviene;

guai a voi parrocchiani,

bruciate il mazzo

di San Giovanni

per scongiurare

questo flagello.

Per fortuna

hanno saputo

iniziare bene

dividendo i viveri

dell’ammasso

distribuendoli alla gente per mangiare.

(1945)

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985, nel libro dell’Aprile 1988 e in "Carnia Libera 1944" (Op. cit.)

Ancora 3

La fueuta

 

Las zornadas son slungjadas

il soreli

al jeva a buinora:

ma tu fueuta,

tu fueuta, ce fastu ?

Tu âs durmît avonda

fai svuelta,

salta fûr,

no stà fâti preâ

che encja la fede

j vin perdût.

J vin bisugna di te,

benedeta!

J vin di traspuartâ

armas.

J sin cenča vivers

J vin da passâ

un pôc par dut.

L’invasôr nu calpesta

j volìn fâlu fûr

no stà

fanûs plui spietâ

par vê la

libertât

di podê

tornâ a samenâ.

La fogliolina

 

I giorni si sono allungati

il sole

si alza di bel mattino:

ma tu fogliolina,

tu fogliolina, cosa fai?

Hai dormito all’occorrenza

sii rapida,

vieni fuori,

non farti pregare

che anche la fede

abbiamo perso.

Abbiamo bisogno di te,

benedetta!

Dobbiamo trasportare

armi.

Siamo senza viveri

Dobbiamo andare

un po’ in ogni luogo.

L’invasore ci calpesta

vogliamo eliminarlo

non

farci ancora aspettare

per avere la

libertà

di poter

ancora seminare.

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 4

I alpins

 

Disradisâz

tolez cun fuarča

dai lôr paîs,

das lôr montz,

là ca era duta la lôr vita,

là ch’a j era cressûz

e vignûz di vinc’agns,

fuarz e sans;

encja s’a era simpri

tanta miseria.

Portâz su âtas monz

ch’as cambiava nomo il non.

Amba Alagi (in Abissinia),

sul Golico,

o sul Tomori,

in Albania,

o in Grecia

là ch’ai cjatava plui miseria

di chê ch’ai veva lassât.

Tar chê becjaria

sul Don

in Russia,

là che il frêt

al faseva in mil posâs

monumenz di glača umana.

A ur àn jemplât il ciruviel

cun patrias

cun bandieras

cun eroes.

A ur àn insegnât

a trai

par copâ;

a ur àn insegnât

a jessi brutâi

par no vê rimuars.

A ju àn lassâz

cenča mangjâ

par faur imparâ

a sachegjâ,

a ju incjocava

la ch’al era dut

da sterminâ.

Quant che dopo,

a vigneva la not

ognun par so cont

al lava a vaî

là che nissun viodeva.

Gli alpini

 

Sradicati,

portati via con forza

dai loro paesi,

dalle loro montagne,

dov’era tutta la loro vita,

dov’erano cresciuti

fino ai vent’anni,

forti e sani;

anche se c’era sempre

molta miseria.

Portati su altre montagne

che di diverso avevano solo il nome.

Amba Alagi (in Abissinia),

sul Golico,

o sul Tomori,

in Albania,

o in Grecia

dove trovavano più miseria

di quella che avevano lasciato.

In quel bagno di sangue

sul Don

in Russia,

ove il freddo

edificava in mille pose

monumenti di ghiaccio umano.

Hanno loro riempito il cervello

con patrie

con bandiere

con eroi.

Hanno loro insegnato

a sparare

per uccidere;

hanno loro insegnato

ad essere dei bruti

per non avere rimorsi.

Li hanno lasciati

senza mangiare

per insegnar loro

a saccheggiare,

li ubriacavano

ove c’era tutto

da sterminare.

Quando poi

scendeva la sera,

in solitudine

e lontano da occhi indiscreti,

ognuno piangeva.

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 5

Dimenticati

 

No

non ti conosco

No mi conosco

non mi conosce

più nessuno;

non conosco più nessuno.

Ieri

ho dato la vita.

Per tanti,

per tutti.

Oggi non ho più

nessuno.

Nessuno mi riconosce

né di fronte

né di profilo

eppure sono rimasto

io

sono rimasto

quello di ieri

per fare ancora

quello che ho sempre fatto

anche per quelli

che tutto hanno dimenticato.

L’incubo di

quei rastrellamenti;

gli spari nella notte

le grida dei compagni

feriti

che cadevano imprecando.

Lo scherno

quando chiedevi un po’ d’acqua

le budelle

che si contorcevano

assieme allo stomaco

indurito per fame.

Perché?

Perché?

Hanno tutto dimenticato,

Perché?

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 6

Inteletuâi

 

Ce peraula

soradut quant

che chesta

a ven deta

tal lôr lengač

A ven cjalcjada

par vê sul biât

contadin

sul biât

operari

la facoltât

di podê dopralu.

Riverisco,

Eccellenza onorevole onorato

e jessi indebitâz

par duta la vita

fin a vendi

la vacja

dopo il prât

e encja

la cjasa.

No j ai mai

podût fidami di lôr

quant ch’a si à

provât

a si à simpri

sbagliât

e il povar operari

tai comedons

a l’à simpri cjapât.

Intellettuali

 

Che parola

soprattutto quando

questa

vien detta

nella loro lingua.

Viene rimarcata

per avere sul povero

contadino

sul povero

operaio

la possibilità

di poterlo usare.

Riverisco,

Eccellenza onorevole onorato

ed essere pieni di debiti

per tutta la vita

fino a dover vendere

la mucca

dopo il prato

e perfino

la casa.

Non ho mai

potuto fidarmi di loro

quando lo si è

fatto

si è sempre

sbagliato

ed il povero operaio

ne ha sempre

fatto le spese

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985 e nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 7

L’aniversari dai trenta agns

 

Sezions

Federazions

Aniversaris

par i trenta agns

da liberazion.

Comandanz

e cumissaris

onorevui

deputâz e senatôrs

duc’ fasin

comemorazions.

Ai mancja nomo

i Partigjans combatenz,

emigrâz

in dutas las parz dal mont.

V’è mo la ricompensa

da liberazion.

L’anniversario dei trenta anni

 

Sezioni

Federazioni

Anniversari

per i trent’anni

della liberazione.

Comandanti

e commissari

onorevoli

deputati e senatori

tutti fanno

commemorazioni.

Mancano solo

i  Partigiani combattenti,

emigrati

in tutto il mondo.

Ecco la ricompensa

della liberazione.

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985, nel libro dell’Aprile 1988 e in "Carnia Libera 1944" (Op. cit.)

Ancora 8

Pertini presidente *

 

Perché Perseguitato

Perché Diseredato

perché Onorato

perché Combattente

perché Carcerato

perché Partigiano

perché Resistente

perché Glorificato

Ai lavoratori?

Ai disoccupati?

Portate pazienza

Rafforziamo la democrazia

poi vanno con la

delinquenza.

 

 

        * Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Sandro_Pertini

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 9

Compagno Pajetta *

 

Il toro si infuria

quando vede

un drappo rosso

Chissà perché

chissà perché

Pajetta

intitola il suo libro

Il Ragazzo Rosso

chissà perché

chissà perché?

Si parla

si scrive

Rosso Rosso sarà

ma poi alla fine

è sempre mezzo

Rosà.

 

 

        * Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Giancarlo_Pajetta

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 10

Compagna Nilde *

 

Compagna Nilde

ormai non ci son più problemi,

ottimo è il tuo comportamento

seguita così

che i democristiani

ti faranno

un monumento.

Cara compagna Jotti

ora che alla presidenza

sei insediata

cuci lo scudo crociato

dalla parte del cuore

ed alla destra il tricolore.

 

 

        * Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Nilde_Iotti

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 11

L’invier dal corantacinc

 

Chel invier dal corantacinc

a si diseva

ch’al era aleât al nemîc

che cun metros

di nêf

al veva alčadas

las monz,

sierât duc’ i pas,

rindint al partigjan

una vita di stenz

a di fan.

Las stradas

son vuardeadas

I puinz cu la sentinela

I paîs presidiâz!

Cosacs

Fassisc’ e Todescs,

spias e republichins

son in ogni puest.

A vulin

la vendeta,

la fan,

la tortura,

il sanc.

L’inverno del quarantacinque

 

Quell’inverno del quarantacinque

si diceva

alleato del nemico

con metri

di neve

aveva innalzato

le montagne,

chiuso tutti i passi,

reso al partigiano

una vita di stenti

e di fame.

Le strade

sono sorvegliate

I ponti con la sentinella

I paesi presidiati!

Cosacchi

Fascisti e Tedeschi

spie e repubblichini

sono in ogni luogo.

Vogliono

la vendetta,

la fame,

la tortura,

il sangue.

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985, nel libro dell’Aprile 1988 e in  "Carnia Libera 1944" (Op. cit.)

Ancora 12

A Pariği ta logia massonica

 

Doman Linto

j vin di lâ a lavorâ

ta sede da Massoneria.

Bisugna presentâsi

ben vistîz.

E ce saressie Ido

la Massoneria?

La sede dai Massons Francês

ch’a vignares a stâ

det par furlan

l’organisazion dai muradôrs.

Tal doman Ido e Linto

si presentin sul porton.

Dopo sunât

si presenta un toc di om

cun tuna mundura

cui batons d’aur

e la gjacheta cu las codas

domandant ce ch’j volìn.

J sin i muradôrs

vignûs a lavorâ.

Ce vuelial dî muradôrs?

A vûl dî massons.

Alora vuatis j sês

i massons talians.

Riguardaisi ben

ch’a no si pos entrâ

cenča golarina

Par chel il paron

al à det ch’j si vistin benon.

Domandj Ido

si podin fevelâ cul capo.

Il Gran Maestri

non si pos disturbâlu.

Il regolament al è clâr!

Cenča golarina no si entra

nencja fevelâ.

Nuja da fâ.

Ido e Linto a s’in van

biel cjacarant sul da fâ;

ai decît di comprâ

la golarina.

Si presentin di nûf sul porton,

chel toc di om

viergint ai domanda di nûf

che ch’j vulin.

J’ài di cjacarâ cul capo

par via dal lavôr.

Cun il Gran Maestro?

Alora bisugna ch’j tu viergis

il pac

Ido al vierč

e j fâs jodi

i vistîz di lavôr

sporcs di malta.

Chel toc di om

metinsi las mans sul cjâf;

J sês i massons!

Parcè no m’el vêso det prima?

A Parigi nella loggia massonica

 

Domani Linto 

dobbiamo lavorare

nella sede della Mssoneria.

Bisogna presentarsi

ben vestiti.

E cosa sarebbe Ido

la Massoneria?

La sede dei Massoni Francesi

che sarebbe tradotto

in friulano

l’organizzazione dei muratori.

L’indomani Ido e Linto

si presentano sul portone.

Al suono del campanello

si presenta un individuo

con il vestito

con i bottoni d’oro

e la giacca con le code

chiedendo cosa desideravano.

Siam muratori

siamo venuti a lavorare.

Cosa significa muratori?

Significa “masson”.

Allora voi siete

i “massons” italiani.

Ricordatevi bene

che non si può entrare

senza collarina

Per quello il padrone

ci ha raccomandato di vestirsi bene.

Chiedigli Ido

se possiamo parlare con il capo.

Il Grande Maestro

non può essere disturbato.

Il regolamento è chiaro!

Senza collarino non si entra

neache a parlarne.

niente da fare.

Ido e Linto se ne vanno

parlando sul da farsi;

decidono di comprare

il collarino.

Si presentano di nuovo al portone,

quell’individuo

aprendo chiede di nuovo

cosa desiderano.

Devo parlare con il capo

per il  lavoro.

Con il Grande Maestro?

Allora bisogna che tu apra

il pacco

Ido apre

e gli fa vedere

i vestiti da lavoro

sporchi di malta.

Quell’individuo

mettendosi le mani nei capelli;

Siete i muratori!

perchè non l’avete detto prima?

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 13

L’odio

 

Bella epigrafetta

posata sulla tomba

di un partigiano

da una mano maledetta.

Qui giace Kruki [1]

uomo reo e perverso

non pregate per lui

che è tempo perso.

Mano perversa

cosa credi di aver fatto?

pregare è proprio

tempo perso

per chi dell’odio

è reso ossesso.

 

[1] Kruki, soprannome di Amadio De Stalis, di Ravascletto, partigiano, commissario di Brigata della Garibaldi con nome di battaglia di Alfonso, ucciso in Valcalda dai caucasici il 2 (?) Marzo 1945. Sepolto a Ravascletto, sulla tomba  fu ritovata  questa scritta riposta da mano nota in spregio ad umana e cristiana compartecipazione di fronte alla morte.

Dell’uccisione di Alfonso vedi Carnier P.A.: “L’Armata Cossacca in Italia”, De Vecchi Editore, 1965 – pag. 207, 296.

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 14

I vari

 

Io penso

io vedo

io sento

io auspico

io spero

io mi auguro

io credo

io mi associo

io mi dissocio

io sono favorevole

io vi prometto

io vi assicuro

io manterrò la mia parola

Potete contare

stete certi

parola mia

poi via… via… via…

fin quando tutti

scordano

quella falsa poesia

Pubblicata nel libro del Dicembre 1985

Ancora 15

Il  Clip

 

Nè frêt

nè cjalt.

Cemût saressie?

Si.

Nè cjalt

nè frêt.

Un clip

como quant

che qualchidun

al ti dà alc

ch'a ti fâs plasê

e tu sintis tal stomi

chest clipùt,

ch'al ti anima

e al ti dà fuarcia.

O como quant che

un'anima buina

cjalanti cun vôi

di afiet

ti fâs capî

ch'a è dongja

di te.

Ch'a ti vûl bon.

E a ti sclipis

il cûr.

Tepore

 

Né freddo

né caldo.

Come sarebbe?

Si.

Né caldo

né freddo.

Un tepore

come quando

qualcuno

ti dà qualcosa

che ti fa piacere

e senti nello stomaco

questo tepore

che ti anima

e ti dà forza.

O come quando

un’anima buona

guardandoti con

affetto

ti fa capire

che ti è vicino.

Che ti vuol bene.

E ti si intiepidisce

il cuore

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 16

La mâri

 

L’om al lava

in Austria,

in Pruscia,

o tai Balcans,

a fâ la stagjonuta.

Pai sants erin

simpri a cjasa.

Ma jê,

che biada femina,

a veva dut su pa

sô schena.

Cul cûr rot

a misurava

chel got di lat

ai doi o trê fruts.

Spianla cun granc’ voglons,

a fasevin capî

ch’al era pôc

ce ch’ai veva

ta scugjela.

In tanc’ paîs,

tas fameas plui poveras

ai faseva dôs, tre busas

ta sedon,

cussi ai veva

simpri lat, ta scugjela

e mangjavin

la polenta secja.

Se ai era malâz

miedis no’nd’era.

Una prêsa di pevar

sul umbriciò,

pal mâl di panza;

un got di cafe nostran

s’a noi lava di cuarp.

S’al era piciul,

ch’a nol cjacarava,

dut il paîs a voltava,

fin quant ca no i passava.

Cencia contâ

dut il timp a preâ

la Madona,

Sant Antoni da mainuta,

che encja lui

al à un frut

dongja di lui,

cun rot il vistidut.

Cencia di jê

la Cjargna

sigûr no sopraviveva.

A si stuargeva la schena

a fuarcia di sforcjâ;

las plaias

là che il gei al pojava.

Epur mai no si lamentava

lant e tornant

cul gei,

la gugja o la soleta

tas mans

sempri streta.

Dopo la taviela

a vigneva il fen di mont

e las legnas.

Cu la logia su pas spalas

o il fas dal fen sul cjâf

ch’al la ingrumava.

Se dopo las dojas

a la ciapavan,

seti tal cjamp,

tal bosc su pa la mont,

a lu faseva.

Tal gei

o su la logia

tal miec’ dal fen

a cjasa lu portava.

Quant che l’om

al tornava

dut fat al cjatava.

Par ricompensa,

la primavera,

prima di tornâ a partî,

cencia tant pensâ,

un ati riguart

ta pansa

ai lassava.

La madre

 

Il marito andava

in Austria,

in Prussia,

o nei Balcani,

al lavoro stagionale.

Per i Santi erano

sempre a casa.

Ma lei,

quella povera donna,

aveva tutto

sulle proprie spalle.

Con il cuore infranto

misurava

quel po’ di latte

ai due o tre bambini.

Guardandola con grandi occhi,

facevano capire

che era poco

quello che avevano

nella scodella.

In molti paesi,

nelle famiglie più povere

facevano due, tre buchi

nel cucchiaio,

cosi avevano

sempre latte, nella scodella

e mangiavano

la sola polenta.

Se erano ammalati

medici non ce n’erano.

Un po’ di pepe

sull’ombelico,

per il mal di pancia;

un po’ di caffè nostrano

se non andavano di corpo.

Se era piccolo,

e non parlava,

girava per tutto il paese,

fin quando non guariva.

Senza tener conto

di tutto il tempo a pregare

la Madonna,

San Antonio da mainuta [1],

che anche lui

ha un bambino

vicino,

con il vestito stracciato.

Senza di lei

la Carnia

di sicuro non sarebbe sopravvissuta.

Si torceva la schiena

ad arare;

le piaghe

lì dove appoggiava la gerla.

eppure non si lamentava mai

andando e tornando

con la gerla,

sferruzzando o trapuntando

con le mani

costantemente.

Dopo la campagna

veniva il fieno della momtagna

e le legna.

Con la slitta sui dirupi

o il fascio di fieno sulla testa

che la pressava.

Se dopo le doglie

incominciavano,

sia nel campo,

nel bosco sulla montagna,

lo partoriva.

Nella gerla

o sulla slitta

adagiato nel fieno

lo portava a casa.

Quando il marito

tornava

trovava tutto fatto.

Per ricompensa,

di primavera,

prima di ripartire,

senza tanto preoccuparsi,

un altro ricordo

nel ventre

le lasciava.

[1] Mainuta: località nel bosco di Zovello dove è stata eretta una piccola cappella (in friulano “maina”) con San Antonio di Padova e il Bambino Gesù, secondo l’iconografia.

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 17

Sclêsas

 

…. Un paisut

tacât tas monz,

a mil metros

sul mâr,

la che i riùs,

partint sot i crez,

ai cor iù,

sbatint l’aga

di clap in clap,

di un colôr

una volta

d’arint,

una volta turchina….

.…al miec’

grant fogolâr;

cu la bûs dal fûc,

las ligisignas

saltavin pà l’aria….

.…I clienz duc’ in gîr

sentâz su las bancjas,

i plui bulos sul boncâl,

quejevin

mêi, pêrs, cartufulas,

sot la cinisa,

e d’invier la lujania….

Schegge

 

... Un paesetto

appiccicato sui monti,

a mille metri

sul mare,

dove i ruscelli,

partendo da sotto le rocce,

corrono giù,

increspando l’acqua

di sasso in sasso,

di un colore

una volta

argenteo,

una volta azzurro...

....nel mezzo

un grande focolare;

con la buca del fuoco,

le faville

svolazzavano in aria...

... I clienti tutti attorno

seduti sulle panche,

i bulli sul bancone,

cuocevano

mele, pere, patate,

sotto la cenere,

e d’inverno la salsiccia....

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 18

Lâ a dimprest

 

Ce tanta miseria!

Cemût ae podût

sopravivi tanta

int?

Ai gjavava sanc

dai claps

par mangjâ

dôs o trê cartufulas

segont ch’as era stadas

contadas

par rivâ a duc’

in famea.

Il ciuc’

o la scueta,

a voleva l’ingrandiment

par viodi.

Par tignî

la vacja

a toccava lâ

a seâ

a miegias

i prâz di mont

enfra i crets,

fin a mil e sîs,

a mil e siet di altecia,

i grifs tai pîs.

Portâ il fen sul cjâf,

tiralu su la vielma,

tiralu su la logia

par oras,

par rivâ a cjasa

muribonz.

A si podeva vê, cussì,

la pussibilitât

di lâ

a dimprest

di un tich

di sâl,

dos sedons

di vueli,

un o doi ûs,

una miegia migina

di farina,

pa polenta,

base da sopravivenza.

Chei ch’a no i veva

propri nuja

no i podeva

a dimprest.

S’ai veva qualche frut,

mandalu a cjarî

la caritât,

s’ai davint alc.

Quant c’ai lava a dimprest

di un, doi ûs,

a iu misurava

tar una brea cu las busas,

fata a puesta

e tar che busa

bisognava tornâ l’ûf

da stesa grandecia.

La farina

lostes

la migina a

vigneva rasada

cun t’una steca dreta:

e cusì a vigneva

tornada.

In prestito

 

Quanta miseria!

Come ha potuto

sopravvivere tanta

gente?

Levavano il sangue

dai sassi

per mangiare

due o tre patate

a seconda di come

erano contate,

per distribuirle a tutti

in famiglia.

Il formaggio

o la ricotta,

ci voleva la lente di ingrandimento

per vederli.

Per tenere

la mucca

bisognava

falciare

a mezzano

i prati dei monti

fra le rocce,

fino a milleseicento,

millesettecento metri di altitudine,

con i ramponi ai piedi.

Portare il fieno sulla testa,

tirarlo sulle frasche,

portarlo sulla slitta

per ore,

per arrivare a casa

sfiniti.

Vi era così

la possibilità

di avere

in prestito

un po’

di sale,

due cucchiai

di olio,

una o due uova,

mezza migina *

di farina

per la polenta,

la base della sopravvivenza.

Coloro che non avevano

proprio nulla

non potevano

prendere

in prestito.

Se avevano un bambino,

lo mandavano

ad elemosinare,

se gli davano qualcosa.

Quando andavano in prestito

di una, due uova,

le misuravano

in un’asse con i buchi,

costruita all’uopo

e in quella buca

bisognava restituire l’uovo

della stessa grandezza.

Anche con

la farina

la migina

veniva livellata

con una spatola

e così veniva

restituita.

 

 

* Migina: unità di misura corrispondente a circa 5 Kg

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 19

Il volontari

 

A i sclopava

Il ceruviel a fuarcia

di pensâ

al scuigniva lâ.

Tal so stomi

un grop di radîs

lu roseava.

Partî, partî!

Lâ, lâ!

Al partiva disarmât,

ma cun una mont

di coragjo

e tanta tanta volontât.

Pa Spagna,

là che già

tainc’ compaigns

ai combatteva

pa libertât.

Ai cantava

Cjancions d’amôr.

Ai veva da vinci

e tornâ cun onôr.

Massa, massa,

ai son muarz,

tanc’ spierdûz.

Pai restâz

encja las ciancions

a ur an probît.

Ma no han podût

copâ la libertât.

Il volontario

 

Gli si rompeva

Il cervello a forza

di pensare

doveva andare.

nel suo stomaco

un ammasso di radici

lo rodeva

Partire, partire!

Andare, Andare!

Partiva disarmato,

ma con tanto

coraggio

e tanta tanta volontà.

Per la Spagna,

là dove già

molti compagni

combattevano

per la libertà.

Cantavano

Canzoni d’amore.

Dovevano vincere

e tornare con onore.

Troppi, troppi,

sono morti,

tanti sperduti.

Ai superstiti

anche le canzoni

hanno proibito.

Ma non hanno potuto

uccidere la libertà

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 20

Il temerari

 

Ch’el c’al sa

alc

a no l’

dîs,

da pôra di no

savê.

Chel c’al no’l sa

nuja

al dîs simpri

dut.

Purtrop di chest

si crôt simpri

dut.

Il temerario

 

Colui che sa

qualcosa

non la dice,

per timore di non

sapere.

Colui che non sa

niente

dice sempre

tutto.

Purtroppo a questi

si crede

sempre

tutto.

 

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 21

Il biât

 

Si savevi.

Si crodevi.

Si ves savût.

Si no ves crodût,

i no eri cussì mona.

Cumò ai san dut:

l’aradio, la television,

il compiuter,

ai dîs dut.

Se dopo tu vâs a fonz

ai son simpri chei

ch’ai saveva dut,

ch’ai àn fat dut,

cencia mai lavorâ,

ma fat mâl

pardut.

Quant ch’a si crôt

cencia savê,

duc’ ai ti imbroin,

e si crôt simpri

da ventin

da vê.

Il povero

 

Se sapevo.

Se credevo,

Se avessi saputo.

Se non avessi creduto,

non sarei così mona.

Adesso sanno tutto:

la radio, la televisione,

il computer,

dicono tutto.

Se dopo vai a fondo delle cose

sono sempre quelli

che sapevano tutto,

che hanno fatto tutto,

senza mai lavorare,

ma fatto del male

dappertutto.

Quando si crede

senza sapere

tutti ti imbrogliano,

e si crede sempre

di averne

bisogno.

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 22

Scrivi

 

Ce tantas robas

ch’al vares

da dî,

da lassâ,

da contâ,

ce ch’al à fat,

in duc’ i aigns

passâz.

Di biel e forsi

di brut.

Dal ben soradut.

Bastares ch’al fos

bon da scrivi

como ch’al à lavorât.

Alora ai colares

tanc un grum

chei ch’ai àn nomo

scrit.

Cencia mai strusciâ,

cencia savê,

ce ch’ai scriveva.

Scrivere

 

Quante cose

avrebbe da

dire,

da lasciare,

da raccontare,

quello che ha fatto,

in tutti gli anni

ormai passati.

Qualcosa di bello e forse

di brutto.

Del bene soprattutto.

Bastasse che fosse

capace di scrivere

come ha lavorato.

Allora cadrebbero

come spazzatura

quelli che han solo

scritto.

Senza mai patire,

senza sapere,

quello che scrivevano.

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 23

Il timp

 

Il timp al va

e al ven

segont

l’aria ch’a tira.

La int a va

e a ven

segont

ch’a scuen.

Cui và

a lavorâ.

Cui và

a marcjât.

Cui fâs

dal ben

encja s’al no’l scuen.

Cui fâs

ricjecia e iniquitât.

Ma Bortul,

fin ch’al à podût

l’à simpri dât.

Il tempo

 

Il tempo va

e viene

a seconda

dell’aria che tira.

La gente va

e viene

a seconda

dei suoi bisogni.

Chi va

a lavorare.

Chi va

al mercato.

Chi fa

del bene

anche se non lo deve.

Chi si

arricchisce ed è iniquo.

Ma Bortul,

fin che ha potuto

ha sempre dato.

Pubblicata nel libro dell’Aprile 1988

Ancora 24

Pubblicata nel libro dell'Aprile 1988

Il chiavistello

 

Chiavistello di legno.

Chiavistello di ferro.

Devo dirla

o devo

… raccontarla?

Racconta!

C’era una volta

nella porta di una

stalla

un chiavistello

di legno.

Portandosi avanti

o all’indietro,

fatto scorrere da uno spago

chiudeva od apriva

la porta.

Ma la stalla

era

sempre chiusa.

Se non c’era

il Padrone

non si apriva.

Chiavistello di legno

o chiavistello di ferro

Devo dirla

o devo

… raccontarla?

Dilla!

La serratura.

La contina

 

Contina di len.

Contina di fier.

Ao da dila

o da

…contàla?

Contila!

An d’era una volta

tar una puarta di

stâli

una contina

di len.

Lant indevant

O indevûr,

tirada da un spâli,

a sierava o vierzeva

la puarta.

E il stâli

al era

simpri sierât.

Sa no l’era

il Paron,

no si vierzeva.

Contina di len

o contina di fier.

Ao da dila

o da

…contala?

Dila!

La sieradura.

Pubblicata nel libro dell'Aprile 1988

Fra foresti

 

Cose mai viste

A Trieste.

In centro città,

verso la metà del mese

di marzo.

Vedere i gabbiani,

di grandi

e di più piccoli,

mangiare insieme

ai colombi.

Sul marciapiede

o attorno ad un albero,

in una piazzetta.

Sul più bello,

neanche da credersi,

sono arrivati

i corvi e le tortorelle

e, in un attimo,

un gruppo di gracchie alpine

scendendo in picchiata sull’albero

e, quattro, cinque alla volta,

cadere giù in mezzo

a questa mischia.

Sembra di raccontare bugie:

sono arrivate

anche due ghiandaie.

Prima che gli uomini

si mettano d’accordo

si metteranno d’accordo

gli animali.

Fra forestîrs

 

Robas mai vioududas

a TRIEST.

In tal miec’ da citât,

a metât dal mês

di marc’.

Viodi i gabians (cocai)

a nd’è di granc’

e di plui piciui,

mangjâ insiema

ai colomps.

Sul marciapît

o ator di un arbul,

tar una piaciuta.

Sul plui biel,

nencja a crodilu,

son rivadas

las quacas e las tortorelas

e, dut tar un moment,

un trop di cioras,

butansci a pic sul arbul

e, quatri, cinc par volta,

plombâ iù tal miec’

di chest mascedot.

Pâr di contâ bausias:

son pur rivadas

encja dôs gjajas.

Prima ch’a si mete

d’acordo la int,

si metarand d’acordo

i anemai.

Pubblicata nel libro dell'Aprile 1988

La pulce

 

La pulce

saltarina

e magrolina

si gira, si muove

va, viene

dando ogni tanto

un piccola puntura,

come per dire

“Non prendo molto,

non sono ingorda.”

Si lascia

anche addomesticare.

Si aveva

quasi paura

quando non ce n’era.

Si pensava subito

“... se non viene la pulce

di sicuro arriva il

ladrone: il pidocchio.”

Sia nella camicia,

mutande

pantaloni

o nella maglia:

si installava da padrone.

Femmine e figli

ne producono a milioni.

Nessuno gli fa paura,

neanche l’acqua bollente

ed ancor meno

il sapone.

Quando hanno fame,

vengono avanti

a plotoni;

li puoi ucciderli

ma ce n’è

sempre tanti

che il corpo

devono divorare.

Non fanno

mai la spia.

Sono solidali

fra loro:

non si mordono

e neanche il fucile

usano.

Poveri quegli uomini

che fra loro

si uccidono!

Il pulc’

 

Il pulc’

dut saltarin

e magrulin

al gira, al volta

al va, al ven

dant ogni tant

la becaduta,

como par dî

“I no tol trop,

i no soi ingord.”

E al si lassa

encja dumiestiâ.

A si veva

quasi pora

quant c’al no l’era.

A si pensava subit

“…sa no’l ven il pulc’

al riva di sigûr il

ladron: il pedôli.”

Seti ta cjamesa,

mudandas

bregons

o t’al majon:

instalât como paron.

Feminas e fîs

ai produsin a milions.

Nessun i fas pôra,

nencja l’aga bulint

tant che mancul

il savon.

Quant c’ai an fan,

ai vegnin indevant

a ploton;

tu pòs ben copâ

ma a nd’è

simpri tanc’

che il cuarp

ai an da divorâ.

A no si fasin

mai la spia.

Ai son solidai

fra di lôr:

né ch’ai si muart

e nencja la sclopa

no i dopra.

Biâs oms

Che fra di lôr,

ai si copa!

Ancora 25
Ancora 26

Contina di len

Contina di fier

bottom of page