
Casimiro De Colle (Miro) (1918-1991)
Poesie - Parte seconda
2. I partigjans
3. La fueuta
4. I alpins
5. Dimenticati
6. Inteletuâi
7. L’aniversari dai trenta agns
10. Compagna Nilde
12. A Pariği ta logia massonica
13. L’odio
14. I vari
15. Il Clip
16. La mari
17. Sclêsas
18. Lâ a dimprest
19. Il volontari
20. Il temerari
21. Il biât
22. Scrivi
23. Il timp
24. Il pulc’
25. Fra forestîrs
26. La contina

Di pâri in fî
Vêso fat tros aigns di soldât,
Pieri?
Fra permanent,
la Libia,
la guera dal disevot
in d’ai faz vot.
Cui ae inventât
las patrias
che quant ch’a ti clamin
bisugna lâ.
Stâ mês
tar una trincea
encja cenča reclamâ.
A ti mandin a l’assalt
cenča parcè
a copâ âtis oms
como te.
Dopo tant fat e lavorât
nencja la pension
no mi àn dât.
E nol è finît aì…
Gno fî
imbasdîd dal disesiet
in timp da l’invasion
al à fat
fra permanent,
duta la guera,
e il partigjan
dibot siet.
Al è stât fortunât
sinò nol sares tornât.
Cumò al è tar una miniera
in Belgjo
a gjavâ cjarvon.
Chesta a è la volta
ch’a lu fasin murî
par dabon.
Il plui pičul
dal milnufcent e vincjequatri
fra soldât e partigjan
and’à faz doi:
ma l’è stât
sfortunât,
doi viaz ferît
e dopo un tumôr
lu à scjafoiât.
Di padre in figlio
Quanti anni di militare avete fatto,
Pieri?
Con il permamente,
la Libia,
la guerra del diciotto
ne ho fatti otto.
Chi ha inventato
le patrie
che quando ti chiamano
devi andare.
Fermarsi mesi
in una trincea
e senza lamentarsi.
Ti mandano all’assalto
senza una ragione
ad uccidere altri uomini
come te.
Dopo tanto fatto e lavorato
neanche la pensione
mi hanno elargito.
E non è finita lì...
Mio figlio
concepito nel diciassette
al tempo dell’invasione
ha fatto
con il permamente,
tutta la guerra,
e il partigiano
quasi sette anni.
E’ stato fortunato
a ritornare.
Ora è in una miniera
in Belgio
ad estrarre carbone.
Questo è il momento
che lo fanno morire
per davvero.
Il più piccolo
del millenovecento e ventiquattro
con il soldato e il partigiano
ne ha fatti due:
ma è stato
sfortunato,
due volte ferito
e dopo un tumore
l’ha soffocato.
I partigjans
In prin ju clamavin
Ribei.
Epûr no vevin divisâs
ne manganei.
Una sclopa su la spâla,
pocjas munizions
e mancul da mangjâ.
Si ju viodeva
pas monz,
ogni tant
tai paîs
s’a vessin vût
las svualas
a saressin lâz
encja in paradîs.
Il pulpit al interven;
guai a vuatis parochians,
brusait il mac
di san Ğuan
par scongjurâ
chest flagjel.
Par furtuna
ai àn savût
ben comenčâ
dividint i vivars
dal amasso
a dâju a int da mangjâ
(1945)
I partigiani
All’inizio li chiamavano
Ribelli.
Eppure non portavano divise
nè manganelli.
Un fucile in spalla
poche munizioni
ed ancor meno da mangiare.
Li si vedeva
sui monti,
ogni tanto
nei paesi
se avessero avuto
le ali
sarebbero saliti
anche in paradiso.
Il pulpito interviene;
guai a voi parrocchiani,
bruciate il mazzo
di San Giovanni
per scongiurare
questo flagello.
Per fortuna
hanno saputo
iniziare bene
dividendo i viveri
dell’ammasso
distribuendoli alla gente per mangiare.
(1945)
La fueuta
Las zornadas son slungjadas
il soreli
al jeva a buinora:
ma tu fueuta,
tu fueuta, ce fastu ?
Tu âs durmît avonda
fai svuelta,
salta fûr,
no stà fâti preâ
che encja la fede
j vin perdût.
J vin bisugna di te,
benedeta!
J vin di traspuartâ
armas.
J sin cenča vivers
J vin da passâ
un pôc par dut.
L’invasôr nu calpesta
j volìn fâlu fûr
no stà
fanûs plui spietâ
par vê la
libertât
di podê
tornâ a samenâ.
La fogliolina
I giorni si sono allungati
il sole
si alza di bel mattino:
ma tu fogliolina,
tu fogliolina, cosa fai?
Hai dormito all’occorrenza
sii rapida,
vieni fuori,
non farti pregare
che anche la fede
abbiamo perso.
Abbiamo bisogno di te,
benedetta!
Dobbiamo trasportare
armi.
Siamo senza viveri
Dobbiamo andare
un po’ in ogni luogo.
L’invasore ci calpesta
vogliamo eliminarlo
non
farci ancora aspettare
per avere la
libertà
di poter
ancora seminare.
I alpins
Disradisâz
tolez cun fuarča
dai lôr paîs,
das lôr montz,
là ca era duta la lôr vita,
là ch’a j era cressûz
e vignûz di vinc’agns,
fuarz e sans;
encja s’a era simpri
tanta miseria.
Portâz su âtas monz
ch’as cambiava nomo il non.
Amba Alagi (in Abissinia),
sul Golico,
o sul Tomori,
in Albania,
o in Grecia
là ch’ai cjatava plui miseria
di chê ch’ai veva lassât.
Tar chê becjaria
sul Don
in Russia,
là che il frêt
al faseva in mil posâs
monumenz di glača umana.
A ur àn jemplât il ciruviel
cun patrias
cun bandieras
cun eroes.
A ur àn insegnât
a trai
par copâ;
a ur àn insegnât
a jessi brutâi
par no vê rimuars.
A ju àn lassâz
cenča mangjâ
par faur imparâ
a sachegjâ,
a ju incjocava
la ch’al era dut
da sterminâ.
Quant che dopo,
a vigneva la not
ognun par so cont
al lava a vaî
là che nissun viodeva.
Gli alpini
Sradicati,
portati via con forza
dai loro paesi,
dalle loro montagne,
dov’era tutta la loro vita,
dov’erano cresciuti
fino ai vent’anni,
forti e sani;
anche se c’era sempre
molta miseria.
Portati su altre montagne
che di diverso avevano solo il nome.
Amba Alagi (in Abissinia),
sul Golico,
o sul Tomori,
in Albania,
o in Grecia
dove trovavano più miseria
di quella che avevano lasciato.
In quel bagno di sangue
sul Don
in Russia,
ove il freddo
edificava in mille pose
monumenti di ghiaccio umano.
Hanno loro riempito il cervello
con patrie
con bandiere
con eroi.
Hanno loro insegnato
a sparare
per uccidere;
hanno loro insegnato
ad essere dei bruti
per non avere rimorsi.
Li hanno lasciati
senza mangiare
per insegnar loro
a saccheggiare,
li ubriacavano
ove c’era tutto
da sterminare.
Quando poi
scendeva la sera,
in solitudine
e lontano da occhi indiscreti,
ognuno piangeva.
Dimenticati
No
non ti conosco
No mi conosco
non mi conosce
più nessuno;
non conosco più nessuno.
Ieri
ho dato la vita.
Per tanti,
per tutti.
Oggi non ho più
nessuno.
Nessuno mi riconosce
né di fronte
né di profilo
eppure sono rimasto
io
sono rimasto
quello di ieri
per fare ancora
quello che ho sempre fatto
anche per quelli
che tutto hanno dimenticato.
L’incubo di
quei rastrellamenti;
gli spari nella notte
le grida dei compagni
feriti
che cadevano imprecando.
Lo scherno
quando chiedevi un po’ d’acqua
le budelle
che si contorcevano
assieme allo stomaco
indurito per fame.
Perché?
Perché?
Hanno tutto dimenticato,
Perché?
Inteletuâi
Ce peraula
soradut quant
che chesta
a ven deta
tal lôr lengač
A ven cjalcjada
par vê sul biât
contadin
sul biât
operari
la facoltât
di podê dopralu.
Riverisco,
Eccellenza onorevole onorato
e jessi indebitâz
par duta la vita
fin a vendi
la vacja
dopo il prât
e encja
la cjasa.
No j ai mai
podût fidami di lôr
quant ch’a si à
provât
a si à simpri
sbagliât
e il povar operari
tai comedons
a l’à simpri cjapât.
Intellettuali
Che parola
soprattutto quando
questa
vien detta
nella loro lingua.
Viene rimarcata
per avere sul povero
contadino
sul povero
operaio
la possibilità
di poterlo usare.
Riverisco,
Eccellenza onorevole onorato
ed essere pieni di debiti
per tutta la vita
fino a dover vendere
la mucca
dopo il prato
e perfino
la casa.
Non ho mai
potuto fidarmi di loro
quando lo si è
fatto
si è sempre
sbagliato
ed il povero operaio
ne ha sempre
fatto le spese
L’aniversari dai trenta agns
Sezions
Federazions
Aniversaris
par i trenta agns
da liberazion.
Comandanz
e cumissaris
onorevui
deputâz e senatôrs
duc’ fasin
comemorazions.
Ai mancja nomo
i Partigjans combatenz,
emigrâz
in dutas las parz dal mont.
V’è mo la ricompensa
da liberazion.
L’anniversario dei trenta anni
Sezioni
Federazioni
Anniversari
per i trent’anni
della liberazione.
Comandanti
e commissari
onorevoli
deputati e senatori
tutti fanno
commemorazioni.
Mancano solo
i Partigiani combattenti,
emigrati
in tutto il mondo.
Ecco la ricompensa
della liberazione.
Pertini presidente *
Perché Perseguitato
Perché Diseredato
perché Onorato
perché Combattente
perché Carcerato
perché Partigiano
perché Resistente
perché Glorificato
Ai lavoratori?
Ai disoccupati?
Portate pazienza
Rafforziamo la democrazia
poi vanno con la
delinquenza.
* Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Sandro_Pertini
Compagno Pajetta *
Il toro si infuria
quando vede
un drappo rosso
Chissà perché
chissà perché
Pajetta
intitola il suo libro
Il Ragazzo Rosso
chissà perché
chissà perché?
Si parla
si scrive
Rosso Rosso sarà
ma poi alla fine
è sempre mezzo
Rosà.
* Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Giancarlo_Pajetta
Compagna Nilde *
Compagna Nilde
ormai non ci son più problemi,
ottimo è il tuo comportamento
seguita così
che i democristiani
ti faranno
un monumento.
Cara compagna Jotti
ora che alla presidenza
sei insediata
cuci lo scudo crociato
dalla parte del cuore
ed alla destra il tricolore.
* Vedi Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Nilde_Iotti
L’invier dal corantacinc
Chel invier dal corantacinc
a si diseva
ch’al era aleât al nemîc
che cun metros
di nêf
al veva alčadas
las monz,
sierât duc’ i pas,
rindint al partigjan
una vita di stenz
a di fan.
Las stradas
son vuardeadas
I puinz cu la sentinela
I paîs presidiâz!
Cosacs
Fassisc’ e Todescs,
spias e republichins
son in ogni puest.
A vulin
la vendeta,
la fan,
la tortura,
il sanc.
L’inverno del quarantacinque
Quell’inverno del quarantacinque
si diceva
alleato del nemico
con metri
di neve
aveva innalzato
le montagne,
chiuso tutti i passi,
reso al partigiano
una vita di stenti
e di fame.
Le strade
sono sorvegliate
I ponti con la sentinella
I paesi presidiati!
Cosacchi
Fascisti e Tedeschi
spie e repubblichini
sono in ogni luogo.
Vogliono
la vendetta,
la fame,
la tortura,
il sangue.
A Pariği ta logia massonica
Doman Linto
j vin di lâ a lavorâ
ta sede da Massoneria.
Bisugna presentâsi
ben vistîz.
E ce saressie Ido
la Massoneria?
La sede dai Massons Francês
ch’a vignares a stâ
det par furlan
l’organisazion dai muradôrs.
Tal doman Ido e Linto
si presentin sul porton.
Dopo sunât
si presenta un toc di om
cun tuna mundura
cui batons d’aur
e la gjacheta cu las codas
domandant ce ch’j volìn.
J sin i muradôrs
vignûs a lavorâ.
Ce vuelial dî muradôrs?
A vûl dî massons.
Alora vuatis j sês
i massons talians.
Riguardaisi ben
ch’a no si pos entrâ
cenča golarina
Par chel il paron
al à det ch’j si vistin benon.
Domandj Ido
si podin fevelâ cul capo.
Il Gran Maestri
non si pos disturbâlu.
Il regolament al è clâr!
Cenča golarina no si entra
nencja fevelâ.
Nuja da fâ.
Ido e Linto a s’in van
biel cjacarant sul da fâ;
ai decît di comprâ
la golarina.
Si presentin di nûf sul porton,
chel toc di om
viergint ai domanda di nûf
che ch’j vulin.
J’ài di cjacarâ cul capo
par via dal lavôr.
Cun il Gran Maestro?
Alora bisugna ch’j tu viergis
il pac
Ido al vierč
e j fâs jodi
i vistîz di lavôr
sporcs di malta.
Chel toc di om
metinsi las mans sul cjâf;
J sês i massons!
Parcè no m’el vêso det prima?
A Parigi nella loggia massonica
Domani Linto
dobbiamo lavorare
nella sede della Mssoneria.
Bisogna presentarsi
ben vestiti.
E cosa sarebbe Ido
la Massoneria?
La sede dei Massoni Francesi
che sarebbe tradotto
in friulano
l’organizzazione dei muratori.
L’indomani Ido e Linto
si presentano sul portone.
Al suono del campanello
si presenta un individuo
con il vestito
con i bottoni d’oro
e la giacca con le code
chiedendo cosa desideravano.
Siam muratori
siamo venuti a lavorare.
Cosa significa muratori?
Significa “masson”.
Allora voi siete
i “massons” italiani.
Ricordatevi bene
che non si può entrare
senza collarina
Per quello il padrone
ci ha raccomandato di vestirsi bene.
Chiedigli Ido
se possiamo parlare con il capo.
Il Grande Maestro
non può essere disturbato.
Il regolamento è chiaro!
Senza collarino non si entra
neache a parlarne.
niente da fare.
Ido e Linto se ne vanno
parlando sul da farsi;
decidono di comprare
il collarino.
Si presentano di nuovo al portone,
quell’individuo
aprendo chiede di nuovo
cosa desiderano.
Devo parlare con il capo
per il lavoro.
Con il Grande Maestro?
Allora bisogna che tu apra
il pacco
Ido apre
e gli fa vedere
i vestiti da lavoro
sporchi di malta.
Quell’individuo
mettendosi le mani nei capelli;
Siete i muratori!
perchè non l’avete detto prima?
L’odio
Bella epigrafetta
posata sulla tomba
di un partigiano
da una mano maledetta.
Qui giace Kruki [1]
uomo reo e perverso
non pregate per lui
che è tempo perso.
Mano perversa
cosa credi di aver fatto?
pregare è proprio
tempo perso
per chi dell’odio
è reso ossesso.
[1] Kruki, soprannome di Amadio De Stalis, di Ravascletto, partigiano, commissario di Brigata della Garibaldi con nome di battaglia di Alfonso, ucciso in Valcalda dai caucasici il 2 (?) Marzo 1945. Sepolto a Ravascletto, sulla tomba fu ritovata questa scritta riposta da mano nota in spregio ad umana e cristiana compartecipazione di fronte alla morte.
Dell’uccisione di Alfonso vedi Carnier P.A.: “L’Armata Cossacca in Italia”, De Vecchi Editore, 1965 – pag. 207, 296.
I vari
Io penso
io vedo
io sento
io auspico
io spero
io mi auguro
io credo
io mi associo
io mi dissocio
io sono favorevole
io vi prometto
io vi assicuro
io manterrò la mia parola
Potete contare
stete certi
parola mia
poi via… via… via…
fin quando tutti
scordano
quella falsa poesia
Il Clip
Nè frêt
nè cjalt.
Cemût saressie?
Si.
Nè cjalt
nè frêt.
Un clip
como quant
che qualchidun
al ti dà alc
ch'a ti fâs plasê
e tu sintis tal stomi
chest clipùt,
ch'al ti anima
e al ti dà fuarcia.
O como quant che
un'anima buina
cjalanti cun vôi
di afiet
ti fâs capî
ch'a è dongja
di te.
Ch'a ti vûl bon.
E a ti sclipis
il cûr.
Tepore
Né freddo
né caldo.
Come sarebbe?
Si.
Né caldo
né freddo.
Un tepore
come quando
qualcuno
ti dà qualcosa
che ti fa piacere
e senti nello stomaco
questo tepore
che ti anima
e ti dà forza.
O come quando
un’anima buona
guardandoti con
affetto
ti fa capire
che ti è vicino.
Che ti vuol bene.
E ti si intiepidisce
il cuore
La mâri
L’om al lava
in Austria,
in Pruscia,
o tai Balcans,
a fâ la stagjonuta.
Pai sants erin
simpri a cjasa.
Ma jê,
che biada femina,
a veva dut su pa
sô schena.
Cul cûr rot
a misurava
chel got di lat
ai doi o trê fruts.
Spianla cun granc’ voglons,
a fasevin capî
ch’al era pôc
ce ch’ai veva
ta scugjela.
In tanc’ paîs,
tas fameas plui poveras
ai faseva dôs, tre busas
ta sedon,
cussi ai veva
simpri lat, ta scugjela
e mangjavin
la polenta secja.
Se ai era malâz
miedis no’nd’era.
Una prêsa di pevar
sul umbriciò,
pal mâl di panza;
un got di cafe nostran
s’a noi lava di cuarp.
S’al era piciul,
ch’a nol cjacarava,
dut il paîs a voltava,
fin quant ca no i passava.
Cencia contâ
dut il timp a preâ
la Madona,
Sant Antoni da mainuta,
che encja lui
al à un frut
dongja di lui,
cun rot il vistidut.
Cencia di jê
la Cjargna
sigûr no sopraviveva.
A si stuargeva la schena
a fuarcia di sforcjâ;
las plaias
là che il gei al pojava.
Epur mai no si lamentava
lant e tornant
cul gei,
la gugja o la soleta
tas mans
sempri streta.
Dopo la taviela
a vigneva il fen di mont
e las legnas.
Cu la logia su pas spalas
o il fas dal fen sul cjâf
ch’al la ingrumava.
Se dopo las dojas
a la ciapavan,
seti tal cjamp,
tal bosc su pa la mont,
a lu faseva.
Tal gei
o su la logia
tal miec’ dal fen
a cjasa lu portava.
Quant che l’om
al tornava
dut fat al cjatava.
Par ricompensa,
la primavera,
prima di tornâ a partî,
cencia tant pensâ,
un ati riguart
ta pansa
ai lassava.
La madre
Il marito andava
in Austria,
in Prussia,
o nei Balcani,
al lavoro stagionale.
Per i Santi erano
sempre a casa.
Ma lei,
quella povera donna,
aveva tutto
sulle proprie spalle.
Con il cuore infranto
misurava
quel po’ di latte
ai due o tre bambini.
Guardandola con grandi occhi,
facevano capire
che era poco
quello che avevano
nella scodella.
In molti paesi,
nelle famiglie più povere
facevano due, tre buchi
nel cucchiaio,
cosi avevano
sempre latte, nella scodella
e mangiavano
la sola polenta.
Se erano ammalati
medici non ce n’erano.
Un po’ di pepe
sull’ombelico,
per il mal di pancia;
un po’ di caffè nostrano
se non andavano di corpo.
Se era piccolo,
e non parlava,
girava per tutto il paese,
fin quando non guariva.
Senza tener conto
di tutto il tempo a pregare
la Madonna,
San Antonio da mainuta [1],
che anche lui
ha un bambino
vicino,
con il vestito stracciato.
Senza di lei
la Carnia
di sicuro non sarebbe sopravvissuta.
Si torceva la schiena
ad arare;
le piaghe
lì dove appoggiava la gerla.
eppure non si lamentava mai
andando e tornando
con la gerla,
sferruzzando o trapuntando
con le mani
costantemente.
Dopo la campagna
veniva il fieno della momtagna
e le legna.
Con la slitta sui dirupi
o il fascio di fieno sulla testa
che la pressava.
Se dopo le doglie
incominciavano,
sia nel campo,
nel bosco sulla montagna,
lo partoriva.
Nella gerla
o sulla slitta
adagiato nel fieno
lo portava a casa.
Quando il marito
tornava
trovava tutto fatto.
Per ricompensa,
di primavera,
prima di ripartire,
senza tanto preoccuparsi,
un altro ricordo
nel ventre
le lasciava.
[1] Mainuta: località nel bosco di Zovello dove è stata eretta una piccola cappella (in friulano “maina”) con San Antonio di Padova e il Bambino Gesù, secondo l’iconografia.
Sclêsas
…. Un paisut
tacât tas monz,
a mil metros
sul mâr,
la che i riùs,
partint sot i crez,
ai cor iù,
sbatint l’aga
di clap in clap,
di un colôr
una volta
d’arint,
una volta turchina….
.…al miec’
grant fogolâr;
cu la bûs dal fûc,
las ligisignas
saltavin pà l’aria….
.…I clienz duc’ in gîr
sentâz su las bancjas,
i plui bulos sul boncâl,
quejevin
mêi, pêrs, cartufulas,
sot la cinisa,
e d’invier la lujania….
Schegge
... Un paesetto
appiccicato sui monti,
a mille metri
sul mare,
dove i ruscelli,
partendo da sotto le rocce,
corrono giù,
increspando l’acqua
di sasso in sasso,
di un colore
una volta
argenteo,
una volta azzurro...
....nel mezzo
un grande focolare;
con la buca del fuoco,
le faville
svolazzavano in aria...
... I clienti tutti attorno
seduti sulle panche,
i bulli sul bancone,
cuocevano
mele, pere, patate,
sotto la cenere,
e d’inverno la salsiccia....
Lâ a dimprest
Ce tanta miseria!
Cemût ae podût
sopravivi tanta
int?
Ai gjavava sanc
dai claps
par mangjâ
dôs o trê cartufulas
segont ch’as era stadas
contadas
par rivâ a duc’
in famea.
Il ciuc’
o la scueta,
a voleva l’ingrandiment
par viodi.
Par tignî
la vacja
a toccava lâ
a seâ
a miegias
i prâz di mont
enfra i crets,
fin a mil e sîs,
a mil e siet di altecia,
i grifs tai pîs.
Portâ il fen sul cjâf,
tiralu su la vielma,
tiralu su la logia
par oras,
par rivâ a cjasa
muribonz.
A si podeva vê, cussì,
la pussibilitât
di lâ
a dimprest
di un tich
di sâl,
dos sedons
di vueli,
un o doi ûs,
una miegia migina
di farina,
pa polenta,
base da sopravivenza.
Chei ch’a no i veva
propri nuja
no i podeva
lâ
a dimprest.
S’ai veva qualche frut,
mandalu a cjarî
la caritât,
s’ai davint alc.
Quant c’ai lava a dimprest
di un, doi ûs,
a iu misurava
tar una brea cu las busas,
fata a puesta
e tar che busa
bisognava tornâ l’ûf
da stesa grandecia.
La farina
lostes
la migina a
vigneva rasada
cun t’una steca dreta:
e cusì a vigneva
tornada.
In prestito
Quanta miseria!
Come ha potuto
sopravvivere tanta
gente?
Levavano il sangue
dai sassi
per mangiare
due o tre patate
a seconda di come
erano contate,
per distribuirle a tutti
in famiglia.
Il formaggio
o la ricotta,
ci voleva la lente di ingrandimento
per vederli.
Per tenere
la mucca
bisognava
falciare
a mezzano
i prati dei monti
fra le rocce,
fino a milleseicento,
millesettecento metri di altitudine,
con i ramponi ai piedi.
Portare il fieno sulla testa,
tirarlo sulle frasche,
portarlo sulla slitta
per ore,
per arrivare a casa
sfiniti.
Vi era così
la possibilità
di avere
in prestito
un po’
di sale,
due cucchiai
di olio,
una o due uova,
mezza migina *
di farina
per la polenta,
la base della sopravvivenza.
Coloro che non avevano
proprio nulla
non potevano
prendere
in prestito.
Se avevano un bambino,
lo mandavano
ad elemosinare,
se gli davano qualcosa.
Quando andavano in prestito
di una, due uova,
le misuravano
in un’asse con i buchi,
costruita all’uopo
e in quella buca
bisognava restituire l’uovo
della stessa grandezza.
Anche con
la farina
la migina
veniva livellata
con una spatola
e così veniva
restituita.
* Migina: unità di misura corrispondente a circa 5 Kg
Il volontari
A i sclopava
Il ceruviel a fuarcia
di pensâ
al scuigniva lâ.
Tal so stomi
un grop di radîs
lu roseava.
Partî, partî!
Lâ, lâ!
Al partiva disarmât,
ma cun una mont
di coragjo
e tanta tanta volontât.
Pa Spagna,
là che già
tainc’ compaigns
ai combatteva
pa libertât.
Ai cantava
Cjancions d’amôr.
Ai veva da vinci
e tornâ cun onôr.
Massa, massa,
ai son muarz,
tanc’ spierdûz.
Pai restâz
encja las ciancions
a ur an probît.
Ma no han podût
copâ la libertât.
Il volontario
Gli si rompeva
Il cervello a forza
di pensare
doveva andare.
nel suo stomaco
un ammasso di radici
lo rodeva
Partire, partire!
Andare, Andare!
Partiva disarmato,
ma con tanto
coraggio
e tanta tanta volontà.
Per la Spagna,
là dove già
molti compagni
combattevano
per la libertà.
Cantavano
Canzoni d’amore.
Dovevano vincere
e tornare con onore.
Troppi, troppi,
sono morti,
tanti sperduti.
Ai superstiti
anche le canzoni
hanno proibito.
Ma non hanno potuto
uccidere la libertà
Il temerari
Ch’el c’al sa
alc
a no l’
dîs,
da pôra di no
savê.
Chel c’al no’l sa
nuja
al dîs simpri
dut.
Purtrop di chest
si crôt simpri
dut.
Il temerario
Colui che sa
qualcosa
non la dice,
per timore di non
sapere.
Colui che non sa
niente
dice sempre
tutto.
Purtroppo a questi
si crede
sempre
tutto.
Il biât
Si savevi.
Si crodevi.
Si ves savût.
Si no ves crodût,
i no eri cussì mona.
Cumò ai san dut:
l’aradio, la television,
il compiuter,
ai dîs dut.
Se dopo tu vâs a fonz
ai son simpri chei
ch’ai saveva dut,
ch’ai àn fat dut,
cencia mai lavorâ,
ma fat mâl
pardut.
Quant ch’a si crôt
cencia savê,
duc’ ai ti imbroin,
e si crôt simpri
da ventin
da vê.
Il povero
Se sapevo.
Se credevo,
Se avessi saputo.
Se non avessi creduto,
non sarei così mona.
Adesso sanno tutto:
la radio, la televisione,
il computer,
dicono tutto.
Se dopo vai a fondo delle cose
sono sempre quelli
che sapevano tutto,
che hanno fatto tutto,
senza mai lavorare,
ma fatto del male
dappertutto.
Quando si crede
senza sapere
tutti ti imbrogliano,
e si crede sempre
di averne
bisogno.
Scrivi
Ce tantas robas
ch’al vares
da dî,
da lassâ,
da contâ,
ce ch’al à fat,
in duc’ i aigns
passâz.
Di biel e forsi
di brut.
Dal ben soradut.
Bastares ch’al fos
bon da scrivi
como ch’al à lavorât.
Alora ai colares
tanc un grum
chei ch’ai àn nomo
scrit.
Cencia mai strusciâ,
cencia savê,
ce ch’ai scriveva.
Scrivere
Quante cose
avrebbe da
dire,
da lasciare,
da raccontare,
quello che ha fatto,
in tutti gli anni
ormai passati.
Qualcosa di bello e forse
di brutto.
Del bene soprattutto.
Bastasse che fosse
capace di scrivere
come ha lavorato.
Allora cadrebbero
come spazzatura
quelli che han solo
scritto.
Senza mai patire,
senza sapere,
quello che scrivevano.
Il timp
Il timp al va
e al ven
segont
l’aria ch’a tira.
La int a va
e a ven
segont
ch’a scuen.
Cui và
a lavorâ.
Cui và
a marcjât.
Cui fâs
dal ben
encja s’al no’l scuen.
Cui fâs
ricjecia e iniquitât.
Ma Bortul,
fin ch’al à podût
l’à simpri dât.
Il tempo
Il tempo va
e viene
a seconda
dell’aria che tira.
La gente va
e viene
a seconda
dei suoi bisogni.
Chi va
a lavorare.
Chi va
al mercato.
Chi fa
del bene
anche se non lo deve.
Chi si
arricchisce ed è iniquo.
Ma Bortul,
fin che ha potuto
ha sempre dato.
Il chiavistello
Chiavistello di legno.
Chiavistello di ferro.
Devo dirla
o devo
… raccontarla?
Racconta!
C’era una volta
nella porta di una
stalla
un chiavistello
di legno.
Portandosi avanti
o all’indietro,
fatto scorrere da uno spago
chiudeva od apriva
la porta.
Ma la stalla
era
sempre chiusa.
Se non c’era
il Padrone
non si apriva.
Chiavistello di legno
o chiavistello di ferro
Devo dirla
o devo
… raccontarla?
Dilla!
La serratura.
La contina
Contina di len.
Contina di fier.
Ao da dila
o da
…contàla?
Contila!
An d’era una volta
tar una puarta di
stâli
una contina
di len.
Lant indevant
O indevûr,
tirada da un spâli,
a sierava o vierzeva
la puarta.
E il stâli
al era
simpri sierât.
Sa no l’era
il Paron,
no si vierzeva.
Contina di len
o contina di fier.
Ao da dila
o da
…contala?
Dila!
La sieradura.
Fra foresti
Cose mai viste
A Trieste.
In centro città,
verso la metà del mese
di marzo.
Vedere i gabbiani,
di grandi
e di più piccoli,
mangiare insieme
ai colombi.
Sul marciapiede
o attorno ad un albero,
in una piazzetta.
Sul più bello,
neanche da credersi,
sono arrivati
i corvi e le tortorelle
e, in un attimo,
un gruppo di gracchie alpine
scendendo in picchiata sull’albero
e, quattro, cinque alla volta,
cadere giù in mezzo
a questa mischia.
Sembra di raccontare bugie:
sono arrivate
anche due ghiandaie.
Prima che gli uomini
si mettano d’accordo
si metteranno d’accordo
gli animali.
Fra forestîrs
Robas mai vioududas
a TRIEST.
In tal miec’ da citât,
a metât dal mês
di marc’.
Viodi i gabians (cocai)
a nd’è di granc’
e di plui piciui,
mangjâ insiema
ai colomps.
Sul marciapît
o ator di un arbul,
tar una piaciuta.
Sul plui biel,
nencja a crodilu,
son rivadas
las quacas e las tortorelas
e, dut tar un moment,
un trop di cioras,
butansci a pic sul arbul
e, quatri, cinc par volta,
plombâ iù tal miec’
di chest mascedot.
Pâr di contâ bausias:
son pur rivadas
encja dôs gjajas.
Prima ch’a si mete
d’acordo la int,
si metarand d’acordo
i anemai.
La pulce
La pulce
saltarina
e magrolina
si gira, si muove
va, viene
dando ogni tanto
un piccola puntura,
come per dire
“Non prendo molto,
non sono ingorda.”
Si lascia
anche addomesticare.
Si aveva
quasi paura
quando non ce n’era.
Si pensava subito
“... se non viene la pulce
di sicuro arriva il
ladrone: il pidocchio.”
Sia nella camicia,
mutande
pantaloni
o nella maglia:
si installava da padrone.
Femmine e figli
ne producono a milioni.
Nessuno gli fa paura,
neanche l’acqua bollente
ed ancor meno
il sapone.
Quando hanno fame,
vengono avanti
a plotoni;
li puoi ucciderli
ma ce n’è
sempre tanti
che il corpo
devono divorare.
Non fanno
mai la spia.
Sono solidali
fra loro:
non si mordono
e neanche il fucile
usano.
Poveri quegli uomini
che fra loro
si uccidono!
Il pulc’
Il pulc’
dut saltarin
e magrulin
al gira, al volta
al va, al ven
dant ogni tant
la becaduta,
como par dî
“I no tol trop,
i no soi ingord.”
E al si lassa
encja dumiestiâ.
A si veva
quasi pora
quant c’al no l’era.
A si pensava subit
“…sa no’l ven il pulc’
al riva di sigûr il
ladron: il pedôli.”
Seti ta cjamesa,
mudandas
bregons
o t’al majon:
instalât como paron.
Feminas e fîs
ai produsin a milions.
Nessun i fas pôra,
nencja l’aga bulint
tant che mancul
il savon.
Quant c’ai an fan,
ai vegnin indevant
a ploton;
tu pòs ben copâ
ma a nd’è
simpri tanc’
che il cuarp
ai an da divorâ.
A no si fasin
mai la spia.
Ai son solidai
fra di lôr:
né ch’ai si muart
e nencja la sclopa
no i dopra.
Biâs oms
Che fra di lôr,
ai si copa!

Contina di len
Contina di fier